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Buoni propositi: sognare di più

Ieri, non causalmente vicino all’inizio del nuovo anno, ho ricevuto una lunga lettera dell’amico Alberto Meschiari, in cui questo amabile scrittore quasi settantenne osa descrivere il mondo che vorrebbe. L’ho bevuta tutta d’un fiato, come un bicchiere d’acqua fresca dopo una corsa.

E’ questa un’epoca sospettosa verso i sogni, un’epoca tutta presa dal cinismo, dal gusto di criticare e demolire. Essere contro è “cool”, fino al complottismo. Chi ama sognare –a qualunque età – si sente stupido e ridicolo, passa per ingenuo e superficiale, per incurante dei problemi sociali, lontano dalle stringenti urgenze politiche.

Il sogno è visto come una vile fuga dalla realtà, un retorico romanticismo, un chiudere gli occhi davanti alle brutture, un’irresponsabile incapacità di fare i conti con la vita vera.

Come il mio amico, amo sognare. Ma se non riesco ad esprimere i miei sogni con sufficiente forza, è forse perché sento su di me il peso di questi giudizi e li temo, venendo da una famiglia di costruttori e ragionieri, gente di calcoli e di fatti.

D’altra parte, il mio essere madre e scrittrice nel modo in cui lo intendo io – un modo per fermarmi e scoprire l’incanto e magari aiutare altri a farlo – mi dice che è giusto sognare, anzi è necessario, anzi…dovrei sognare di più!

Sognare vuol dire anche pensare criticamente, non prendere il nostro modo di vivere come l’unico possibile, ma saperlo immaginare diverso, più giusto, più felice.

Presente “This is water” di David Foster Wallace? E’ il discorso del grande scrittore statunitense ai giovani del Kenyon College, su cui è stato fatto uno stupendo cortometraggio. (LINK), che inizia con un pesce rosso che chiede “Hey, com’è l’acqua?” e l’altro risponde “Cosa cavolo è l’acqua?”.

Author David Foster Wallace was asked to give the commencement address to the 2005 graduating class of Kenyon College. This captivating short film is, without a doubt, some of the best life advice I've come across for anyone starting out in the scary working world (and those already in it too), and the most simple and elegant explanation of the real value of education.

Quel video ti fa capire che il mondo può essere sognato. Il mondo in cui viviamo – che spesso ci fa sentire oppressi e frustrati - non è così per caso, ma è così perché qualcuno prima lo ha sognato – o meglio lo ha “progettato”. Essere consapevoli di questo è il primo passo per sentirci addosso la libertà – ma anche la responsabilità – del sogno. Non è il mondo migliore per tutti, probabilmente è il mondo migliore per quel 2% di persone che detiene il 51% delle risorse. Quindi … sognare vuol dire avere il coraggio di mettere in discussione tutto, di immaginare ogni cosa diversa, di sentirsi liberi di vivere secondo non le convenzioni, ma le convinzioni.

Se dovessi dire qual’è il mio sogno, non sarebbe molto diverso da quello del mio amico: un mondo in cui ognuno può vivere dignitosamente, un mondo senza pregiudizi e stereotipi, in cui ognuno può esprimersi come lo fa stare meglio, un mondo d’amore tra umani, vegetali, animali, un mondo in cui ci si onora con rispetto, in cui la parola fa superare i conflitti, in cui il flusso della vita scorre in pace, in cui si sappia riconoscere la bellezza e ci si sappia stupire dell’infinità molteplicità della creazione.

E cosa succederebbe, se fossimo in tanti a fare lo stesso sogno? Forse diventerebbe qualcosa di più di una reverie, di un sogno ad occhi aperti. Potrebbe diventare una piccola rivoluzione pacifica, fatta di gesti di cura e di ascolto attento, di scelte diverse e personali. Tornando al mio amico scrittore, e pensando a Bruno Tognolini e alla sua rima qui sotto, direi che sarebbe il sogno comune di chi ci prova gusto a seminare, crescere e coltivare. Qualsiasi germoglio che abbia il sapore della vita.

 

“Nel mondo che vorrei il pane si seminerebbe per tutti e non per pochi, e fra tutti sarebbe equamente diviso. E con esso tutto ciò che ha forma e sapore di pane: la terra, la bellezza e l’amore.”

Alberto Meschiari

 

"Seminate e innaffiate i vostri sogni
Contadini piantatori di miraggi
Spalate nuvole, lasciate segni
Frecce di favole per tutti i vostri viaggi
I sogni più sinceri e più sbruffoni
Si fanno oracoli, se bene detti
Se le visuali diventano visioni
Le profezie diventano progetti
Se non si avverano, era solo un sogno scemo
Ma se si avverano, allora brinderemo."

RIMA PER LA SEMINA DEI SOGNI, Bruno Tognolini

tags: Dream, Sogni
Saturday 12.31.16
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L’era della narrazione, tra storytelling e post-verità

La bibliografia di matrice anglosassone ha sempre classificato la produzione letteraria in due macro categorie: fiction e non fiction. Una distinzione, quella tra racconti di fantasia e documentazione realistica, che non esiste in tutte le lingue e tantomeno nella lingua di quel popolo di poeti, che siamo (eravamo? dovremmo essere?) noi italiani.

Per una volta possiamo dire di essere stati più lungimiranti noi, perché il boom dello storytelling poggia proprio sul superamento di questa dicotomia. Oggi lo storytelling rappresenta, con il suo mix di dati di fatto e lavoro d'immaginazione, una nuova prospettiva di ricerca di senso, quel senso di cui abbiamo bisogno per riempire il vuoto lasciato dal crollo di religioni, ideologie e altri fenomeni di massa (eccetto il calcio). Non esente da rischi, certo, ed ecco allora la necessità di uno storytelling guidato dall’etica.

Esemplare la scena finale di The Hateful Eight di Tarantino, quando uno dei due sopravvissuti al massacro nel saloon legge all'altro una falsa lettera di ringraziamento di Lincoln. Il trattamento colore dell'immagine vira sul blu, rosso e bianco, i colori della bandiera americana. Come a dire: ecco cosa rimane di questo paese, una storia finta, che però serve a motivare, a dare significato, a orientare le azioni. Con questa provocazione apre The Narrative Age - Convegno Nazionale dell'Osservatorio Storytelling del 25.11 a Milano il filosofo Roberto Mordacci, che vede lo storytelling come conseguenza della riscoperta da parte dei giovani filosofi, della responsabilità della verità, in opposizione alla scuola dei vecchi filosofi, ancora sostenitori di quel pensiero post-moderno per cui non esiste la verità, se mai tante ed equipollenti verità.

Tutto il contrario del "raccontare storie" insomma.  Questa precisazione è quanto mai necessaria, perché nel mondo della comunicazione il termine storytelling tende ad essere abusato e travisato.

Fare storytelling significa cercare una storia e darle vita per incontrare un pubblico con l'appeal dell'onestà, della gentilezza, del pensiero laterale, della creatività, dell'impegno - in una giungla in cui il marketing tradizionale, aggressivo, dal linguaggio che è un grido di guerra (il pubblico come "target da colpire"), dalle iperboli e dalle false promesse ha perso credibilità e, soprattutto efficacia. Perché in una proliferazione di messaggi tutti simili, fare storytelling per un brand significa cercare la propria anima e, cercandola, costruirla. Magari, come fu nella versione biblica della creazione, nominando prima di tutto qualcosa perché prenda vita. Parlare di anima non è blasfemo - perché un brand cos'è, se non persone?

Lo storytelling è come una mappa medievale: la rappresentazione di un micro mondo dove convivono pacificamente il Mar Rosso e l'Eden, il Papa e gli sciapodi (esseri mitologici con una sola gamba), elefanti ed unicorni, ossia dati di realtà e creature fantastiche.

Oggi questa commistione esiste in ogni ambito della comunicazione, anche in quello che più di tutti si penserebbe ne fosse lontano, ad esempio il mondo dell’informazione. Dietro ad ogni immagine e testo c’è una costruzione della realtà da un preciso punto di vista. Basta pensare ai racconti geopolitici dell'ISIS, ad esempio. Per arrivare ad apici assurdi e divertenti, come il fenomeno del turismo finzionale (ad esempio, il binario 9 e 3/4 di King’s Cross a Londra osannato dai fan di Harry Potter) oppure il finto documentario sulla prova dell'esistenza delle sirene Mermaids – The body found, citato dal Direttore dell'Osservatorio Storytelling Andrea Fontana nello stesso convegno di cui sopra.

Eppure questo non deve scandalizzarci, quanto smaliziarci, cioè spingerci a interrogare le storie che ci vengono proposte, per indovinarne la regia e smontarne il costrutto narrativo.

Persino l’autobiografia, ambito a me molto caro, non è scevra dalla commistione di fatti realmente accaduti e fatti inventati. Pur perseguendo un ideale di verità, quando la memoria ritrova i ricordi, essa procede creativamente. I ricordi, infatti – come le neuroscienze hanno recentemente confermato – non sono mai uguali a se stessi, ma si trasformano nel tempo. E questo per quanto riguarda la prima fase dell’autobiografia (quella del dissodare il terreno della memoria), mentre nelle fasi successive, della sceneggiatura del racconto di vita, l’attività progettuale creativa è ancora più evidente.

Ma torniamo allo storytelling come nuova frontiera del marketing e quindi in relazione al brand. Per un brand costruire la propria storia significa confrontarsi con la propria identità, valori, etica, visioni. Cercare la propria storia è il primo passo che un'organizzazione possa fare per dare il meglio di sé. Quello successivo è dare vita ad una core-story, o storia-cardine, e amplificarla costruendo un immaginario, uno storyworlding necessario a rendere tangibile la storia stesso.

Presente la Misericordina di Papa Francesco? Un altro esempio ancora?

Il video Always #LikeAGirl - Girl Emojis prodotto da Always, marca di assorbenti, mostrato sempre al convegno dal direttore creativo Paolo Iabichino.

72% of girls feel that society limits them, by dictating what they should and shouldn't do. Sometimes, these limiting messages can be found in unexpected and subtle places - like on your phone. They may seem small, but emojis are more than just funny faces. They've become how girls express themselves in text and online.

Un video in cui il prodotto non si vede e non si nomina (se non nella schermata finale). Piuttosto si comunica una particolare sensibilità del brand verso un problema percepito dal pubblico di riferimento, cioè il fatto che le ragazzine non si sentono interpretate dal linguaggio stereotipato degli emoticons. Se una ragazzina vuole chattare ed esprimere con un emoticon che il weekend andrà a surfare, troverà l’icona del ragazzo sul surf, non della ragazza. Troverà in compenso molte icone di ragazze che si fanno lo smalto o danzano.

Un allargamento di prospettiva, un lavoro di ascolto del cliente/lettore, un approccio impegnato, un lavoro apprezzato dal pubblico con 18.857.303 di visualizzazioni.

Sul terreno dello storytelling, è sulla possibilità di toccare la sensibilità del pubblico, che il brand si gioca tutto.

Non solo perché è l'ultima strategia di comunicazione, non solo perché è qualcosa di più vicino al bespoke che alla mass production, ma anche e soprattutto perché porta il brand a interrogarsi su come contribuire alla costruzione del futuro con un messaggio originale e necessario.

Disegnare il futuro è opera d’immaginazione.

Ma tutto ciò che è diventato realtà non avrebbe potuto diventarlo, se qualcuno prima non lo avesse immaginato. E raccontato.

tags: storytelling, posverità, thenarrativeage
categories: Personal Storytelling, Storytelling
Friday 12.09.16
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L'invenzione di un luogo - e del suo vino

castiglioncello.jpg

"Il circolo delle gomme lisce" si era autobattezzato il gruppo di attori e personaggi del cinema, tra cui Marcello Mastroianni, che - mescolati agli abitanti del paese - passavano pigramente i giorni d'estate seduti sulla Piazza di Castiglioncello ad osservare la gente. Gomme lisce perché inutili, da buttare, cosi come il tempo ozioso. Tempo in realtà produttivo per l'artista, che segretamente si nutre nell'osservazione, incamerando frammenti di mondo che a tempo opportuno germineranno. Il tempo vuoto, randagio e festaiolo raccontato da Dino Risi nel suo Il Sorpasso – riuscitissimo affresco cinematografico dell'Italia del  miracolo economicoanni ’60 - girato proprio a Castiglioncello con Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant.

A raccontare con brevi flash l'atmosfera unica di Castiglioncello, sito su un incantevole tratto di costa Toscana a sud di Livorno, è stato lo storico Cosimo Ceccuti in occasione della presentazione del volume "Saluti da Castiglioncello" pubblicato dall’editore cult Corraini, avvenuta l’11 novembre scorso nella sala del Gonfalone del Palazzo della Regione Toscana, nel cuore di Firenze.

Sarà per via del mare per lo più impervio, di scoglio, sarà perché di grandi strutture non ce ne sono, Castiglioncello non è mai stata – volutamente o no – una località nota al grande pubblico, piuttosto una meta turistica per intenditori, un buen retiro per uomini di stato come Craxi e scrittori in cerca di ispirazione, come Pirandello e Montanelli. Castiglioncello, ancora prima, agli albori del ‘900, era stato un luogo di creazione artistica grazie al mecenate Diego Martelli che ospitò nel suo casolare Giovanni Fattori e altri pittori che divennero i Macchiaioli, veri e propri precursori dell’Impressionismo.

La via su cui s’arrampicavano i Macchiaioli saliva su per quello che – con l’incredibile capacità linguistica dei toscani di descrivere vivamente ogni cosa – i locali chiamavano “poggio pelato”. Un colle brullo, giallo, coperto di garega e sterpaglie. Nemmeno un filo d'erba, solo un casone diroccato in mezzo.

Da cui, però, si godeva una vista unica sul mare e sull’arcipelago, con la Gorgona e l’Elba sullo sfondo.

Eppure, nell’estate del 1994, qualcuno aveva saputo guardare quel poggio pelato con l’occhio del cuore e immaginare un sogno: nuova vita alla terra, con colture mediterranee. La resurrezione del casale diroccato.

Il nome di quel qualcuno era Fulvio Martini, toscano d’origine ma emiliano di nascita, e il nome che lui diede al vino e all’olio che quella terra avrebbe prodotto è Fortulla – come il ruscello che scende dal poggio -  a testimonianza della sincerità del suo colpo di fulmine per quel luogo.

Casale del Mare invece il nome del Relais di Campagna e Ristorante condotto dal giovane chef salernitano Marco Parillo, ricavato dalla sapiente ristrutturazione contemporanea dell’Architetto Gianfranco Zanafredi.

L’ironia della sorte ha voluto che proprio alla riqualificazione di quel luogo ad opera di un uomo che si definisce "non di penna ma di zappa" sia stato dedicato un bel volume, con fotografie e cartoline storiche, bei testi, carta raffinata e divertenti effetti grafici, presentato in prima persona da Eugenio Ciani, presidente della Regione Toscana, che per l’occasione ha recitato alcuni versi tratti da I Sepolcri di Foscolo, che paiono essere stati scritti per dipingere a parole la bellezza di Castiglioncello.
“Te beata, gridai, per le felici
aure pregne di vita, e pe' lavacri
che da' suoi gioghi a te versa Apennino!
Lieta dell'aer tuo veste la Luna
di luce limpidissima i tuoi colli
per vendemmia festanti, e le convalli
popolate di case e d'oliveti
mille di fiori al ciel mandano incensi”

 

E’ un grande onore per 00:am essere presenti all’interno del catalogo nelle pagine dedicate alle etichette dei vini Fortulla - vini coraggiosi perché di uve esposte al vento salmastro, vini pioneristici, di vitigni mai visti sulla costa toscana, come il Petit Manseng, usato in purezza nell’ultima creazione enologica Fortulla.

Pelagico come la vista sul mare aperto che si gode dal poggio, Serpentino come le rocce ofiolitiche che caratterizzano la geologia del luogo, Sorpasso come il capolavoro di Risi, Fortulla come la tenuta, Epatta come l’età della luna nella meridiana dipinta sulla facciata del casale: nel battezzare i vini abbiamo cercato nomi che, oltre a suonare bene, raccontassero ciascuno un brano di questa storia d’amore per la terra e i suoi frutti.

Grafica al tratto, trattamento bicromo delle immagini, etichetta unica che svolga sia la funzione informativa sia di storytelling, una palette di colori intensi e vivaci per capsule e il cipresso diventato logo, foglia, taglio di Fontana al centro dell’etichetta, l’eleganza del nero, la tattilità della carta e della vernice Braille.

Tantissime scelte, fatte con la massima cura, per disegnare la delizia di questa biocantina toscana di altissima qualità.

Sarà un caso o no, che a pochi mesi dal lancio, Serpentino e Pelagico con le nuove etichette hanno già vinto prestigiosi premi?

tags: Art Direction, Storytelling, Castiglioncello, Corraini
Tuesday 11.22.16
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TOWARDS A NEW PRESENTATION ERA

 

Endless bullet-points, micro-sized paragraphs and showy animations are the guarantee of a boring, old-fashioned presentation. But if you, as a listener, do not come across a designer, a native digital or a storytelling connoisseur, it’s likely that you will have to endure a long speech supported by this kind of visuals.

On the other hand, project presentations are changing fast and going towards another direction. Presentation programs are becoming more and more visual – just think about Prezi, which forces you to go beyond the logic sequence of one slide after the other, to switch to a whole board, that you can fill in as you like - with images, texts or videos. You will choose the order in which you present one concept after the other only of the very end of your graphic work. The idea behind it is very much like the search tool in a Mac computer: no longer a tree of folders, just a lens where you type a key word and the computer will lead you straight to the researched file. We’re becoming more visual, simultaneous, immediate and less logical and rational.

Or think about Sway, which composes your presentation like a website, with interactive pages, for example.

But visual supports are not enough to make a strong presentation. Good speakers can, without them, nevertheless grab the audience’s attention.

Brevity is a key-aspect, because the peak of human attention lasts 5 to 12 minutes.

And so we can find formats, who point at brevity as presentation’s main secret of success. Pecha Kucha and Ignite are the most important two. Pecha Kucha Nights, for example, are worldwide events for young designers to meet, network, and show their work in public. They can talk for 6’ 20’’, their presentation must consist of 20 slides, each slide have to last 20’’. Slides advance automatically, so no chance to cheat! Ignite works in a quite similar way. These events are a kind of live experience of what Slideshare is online, a bottom up sharing of ideas, inspired by peer-to-peer education (anyway, projects are also available online).

But the hottest public speaking school at the moment is TED, which demonstrates how storytelling plays the key role in new generation speeches.

TED is a nonprofit devoted to spreading ideas, usually in the form of short, powerful talks (18 minutes or less). TED began in 1984 as a conference where Technology, Entertainment and Design converged, and today covers almost all topics in more than 100 languages. TED.com is becoming a clearinghouse of free knowledge from the world's most inspired thinkers and they also organize and promote TEDx events around the world, all year long. TED speeches range from science to business to global issues, but speakers do all share one thing: they know how to conceive brief, yet powerful speeches.

I have been entrusted by the cult professional haircare company Davines to improve project presentations during their shows.

So, when we started working at this project, at first I was taking into consideration the option of adopting a quite strict format, inspired by existing Ignite and Pecha Kucha. These formats share a fixed structure: an x number of slides for an x number of seconds. This means that the speaker has to practice a lot to be sure to perform well, to tell right things at the right moment, to be punctual and effective.

This would have perfectly matched our goal: end up long, boring, untrained presentations and switch to short, brilliant, effective ones.

Then we started asking ourselves: would a strict format be enough to reach our goal? What is that makes presentations really powerful? Just exterior formal features, like the number of minutes they last, the number of slides they show, the size of images and lettering?

If it would be so easy, then every presentation sticking to these rules would potentially a success. But it is not like that.

What is that makes a presentation truly involving and memorable?

After watching and thinking over some of the most successful TED presentations ever done, we came to this conclusion: what makes a presentation strong, is first of all the ability to connect with the audience by telling a story. Not just whatever story, but one revealing the very deep passion of the speaker, something he/she really cares for and believes in.

It may sound easy, but it is not. Because stories are all around us, in other people, in our past, in films and movies, in advertising, on newspapers. We’re so much into stories, that it is not easy to identify the ones that deeply resonate inside ourselves. And, when it has to do with our job, the presentation of a project is often something we relate to duty and stress. Finding a deep personal connection to a professional project means investigating one’s feelings, emotions, experiences, anedoctes and so on with a striking positive attitude. Sometimes coming to a good speech idea requires a brainstorming or the work of a whole creative team. But the most important thing is how authentic and meaningful the story is for the speaker.

Of course, many kinds of stories can be used, such as brand stories or stories about other people.

But still, personal stories are the most effective ones, also for professional presentations, for two reasons:

-      It will help build a great speech - just the simple fact of looking for autobiographical stories leads you beyond stereotypes, commonplaces and worn out words, it will let you see the same thing from another point of view, actually from your very personal point of view, and will make you discover an original, new, fresh language

-      It will help catch the audience’s attention - finding a personal story to introduce a presentation is a way to settle it in a specific, real, alive context and therefore to create a connection with people, who can imagine the whole situation and can identify

“Stories are everywhere, but you have to look for them carefully, to pick up the one that best conveys to the audience the very essence of what makes your heart sing” says with a beautiful image the internationally admired keynote speaker and author of bestseller “Talk Like TED” Carmine Gallo.

Follow this blog for more tips on The New Presentation Era!

tags: Public speaking, Personal Storytelling, Presentations
Monday 11.14.16
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UN ESPERIMENTO SULLE ORME DI PROUST

Sabato scorso si è ripetuto un insolito esperimento in cui un gruppo di donne, in un laboratorio di mia ideazione, ha messo alla prova il cosiddetto fenomeno Proust, per cui gusto e olfatto possono scatenare lampi che vanno a illuminare angoli bui della nostra memoria.

La lettura delle famose pagine dedicate alle briciole di madeleine sciolte nell’infuso di tiglio stupisce ancora oggi per la precisione con cui Proust, nel primo volume della sua lunghissima autobiografia Alla ricerca del tempo perduto, descrive l’affiorare del ricordo di zia Leonie, poi della casa e infine delle strade e delle piazze di Combray, dove Marcel passava le estati da bambino. Una città intera esce da una tazza di the e si ricostruisce davanti agli occhi dell’autore.

Proust descrive come la memoria si svela pian piano, come un domino in cui una tessera fa cadere la successiva e così via, una volta iniziato a dissodare il terreno dei ricordi. Ancora, Proust spiega come i ricordi non siano fotografie immutabili, bensì cambino nel tempo, si trasformino ogni volta che vengono richiamati alla memoria, coinvolgendo nella loro rievocazione un’attività creativa.

Era il 1913 quando fu pubblicato il primo dei 7 volumi della Recherche e cento anni dopo alcune scoperte neuroscientifiche hanno dimostrato come il gusto e l'olfatto siano in collegamento diretto con l'ippocampo, che svolge un ruolo importante nella memorizzazione, e come i due sensi abbiano un ruolo importante sia nella formazione dei ricordi che nella loro evocazione, confermando le intuizioni di Proust così dettagliatamente osservate e descritte nella Recherche.

Nel saggio Proust era un neuroscienziato il giovane ricercatore americano Jonah Lehrer mette in relazione le neuroscienze con l'arte e la letteratura e, in una sintesi tra cultura umanistica e cultura scientifica, analizza l'opera e le intuizioni di alcuni artisti, argomentando l’idea che la scienza non è l’unica via possibile per la conoscenza. Così come Marcel Proust ha penetrato i misteri della memoria immergendosi nei suoi ricordi e mettendoli in relazione con il gusto e l’olfatto, così Lehrer analizza come il poeta Walt Whitman abbia intuito le basi biologiche del pensiero umano; come la scrittura sperimentale di Gertrude Stein faccia presagire il lavoro di Noam Chomsky sulla grammatica; come la coscienza estetica di Stravinskij abbia anticipato le scoperte dei neuroscienziati sui modelli sviluppati dal cervello per il riconoscimento delle sequenze di note.

Alle partecipanti del laboratorio è stato chiesto di mettere a fuoco la ricetta del “piatto forte” della propria vita e di inviarla in anticipo alle docenti, cioè io e Lena Tritto, insegnante di cucina di casa e docente di scuola Tao. Questo primissimo esercizio, oltre a consentire a Lena di trasformarsi per l’occasione in “personal chef” e cucinare il piatto di ciascuna partecipante, ha portato le partecipanti a ripercorrere l’archivio dei propri ricordi sensoriali, entrando così già giorni prima nel clima autobiografico del laboratorio. Sempre all’insegna delle avanguardie dei primi del ‘900 i primi giochi autobiografici volti a sbloccare la penna dall’ansia da prestazione, con scritture automatiche e petit onze, fino ad arrivare a ricostruire la vera e propria storia dietro alla ricetta. E’ così che dietro a una ricetta apparentemente banale, come “Pizza”, si rivela come in uno stemma dinastico l’identità di un’intera famiglia, fatta di migrazioni e contaminazioni culturali e gastronomiche, attorno ad un unico punto fermo – la pizza, appunto.

Dopo aver scritto e condiviso con il gruppo, è arrivato il momento di assaggiare i piatti e andare così ciasuno a testare il fenomeno Proust, prestando attenzione a se vengono aggiunti dettagli al ricordo già dissodato ed emerso. Ma se ogni gruppo in autobiografia lavora col principio di Zygmunt Bauman dell’individualmente insieme, allora l’assaggio non è stato solo individuale ma condiviso: ognuno, dopo aver scoperto le storie celate dietro alle ricette scelte tra centinaia per essere rievocate questa celebrazione del “piatto del buon ricordo”, ha potuto assaggiare il gusto degli altri, arricchendo la propria immagine di profumi e sapori, in una grande sinestesia.

In questo insolito pranzo, Lena ha spiegato le proprietà energetiche dei diversi piatti, dei loro ingredienti e procedimenti, al fine di cucinarli per supportare il corpo nelle diverse stagioni e nelle necessità specifiche individuali.

Ricette, storie, micropoesie, fotografie, consigli nutrizionali, commenti e impressioni sono stati raccolti da ciascuna partecipante in un rice-diario decorato a mano nell’ultima parte del laboratorio, con timbri, scotch con stampe pattern, ritagli di carte di design create con fustellatrici Sizzix e altri materiali della tecnica scrapbook.

Un ringraziamento a Coop Alleanza 3.0 per aver reso possibile l’evento.

tags: Personal Storytelling, Proust, autobiografia
Tuesday 10.18.16
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La biografia di ogni uomo

Sono molte più le cose che ci uniscono rispetto a quelle che ci dividono. Parola di scienziati!

featured image: Rosie Woodcock

featured image: Rosie Woodcock

Come molti, ho riso e pianto guardando il video  in cui un gruppo di persone - filmato prima e dopo aver visto i risultati dell'analisi della propria mappa genetica - si trova improvvisamente a guardare gli altri da una prospettiva diversa: non più l'altro da sé ma l'altro dentro di sé. Ognuno scopre con sorpresa di essere il frutto fantasioso di un inaspettato mix di popolazioni, molte delle quali lontanissime dalla propria nazionalità. Chi ha pelle chiara e occhi azzurri scoprire magari di essere 70% africano e chi ha pelle nera di essere in gran parte cinese o celtico, tanto per fare un esempio. Insomma, il nostro DNA ha viaggiato tantissimo!

Al dirompere di tali insight, affiora una nuova benevolenza di sguardo, per cui i pregiudizi vengono considerati come aspetto parziale e ipersemplificato di un realtà più complessa e spesso portatrice di valori positivi.

Da questo esperimento si tocca con mano ciò su cui antropologi, archeologi, storici, genetisti e linguisti sono arrivati a concordare: il mondo è sempre stato villaggio - ben prima della globalizzazione - e noi umani siamo figli di un'unica stirpe che originò a Laetoli, in Tanzania settentrionale circa 3,75 milioni di anni fa. Vivevamo in riva a un lago che sorgeva tra vaste praterie, con monti all'orizzonte, attraversate da un sentiero, vivevamo in comunità insieme a branchi di (altri) animali. Questo è provato dal ritrovamento delle prime orme di camminata bipede in quella zona e spiegherebbe anche la nostra innata predilezione per questo tipo di paesaggi e - per esteso - un sentire comune in merito a ciò che è bello - una teoria evoluzionista della bellezza spiegata in modo divertente dal filosofo Denis Dutton nel suo libro The Art Instinct e ad una conferenza TED

A un bel momento la comunità dei nostri nonni di Laetoli comincia a desiderare di spostarsi, scavalcare i monti e cominciare la conquista del mondo. Lo rende possibile una rivoluzione anatomica, il bipedismo, che rende gli uomini più resistenti alla calura (perché è minore la superficie corporea esposta ai raggi solari), più abili (hanno le mani libere) è letteralmente più lungimiranti, potendo vedere lontano.

Dalla prateria inizia una migrazione che porta i nostri antenati a spostarsi verso est, a colonizzare India e Indocina, per attivare poi al vecchio mondo. Man mano che si espandono le comunità, si sviluppano particolari abilità e mutazioni genetiche per adattarsi agli habitat in cui si trovano.

A un certo punto, però, tra tutti gli "homo" rimane solo il Sapiens. Perché? Alcuni imputano le cause alla sua prolificità o all'estinzione dell'Homo di Neandertal, dell'Homo Heidelbergensis ed altri a causa di calamità naturali, come la terribile eruzione del vulcano Toba a Sumatra.

Eppure altri vedono nell'Homo Sapiens una grande carta vincente: la convergenza adattiva, cioè la capacità di adattarsi a mutate condizioni, sia a livello genetico (mutazioni nel colore della pelle, capacità di digerire determinate novità alimentari come il latte, ad esempio) sia a livello fisiologico (l'abbronzatura o la variazione di globuli rossi in relazione all'altitudine).

Ma esiste un altro livello che caratterizza l'Homo Sapiens: la capacità astrattiva di progettare. L'Homo Sapiens inventa tecniche costruttive che gli permettono di ripararsi, raffina l'arte della caccia con arco e freccia e inventa l'ago da cucire, con cui comincia a fabbricare vestiti che gli consentiranno di spingersi fino ai deserti freddi e montagne.

La capacità di inventare non risponde solo a necessità di sopravvivenza, bensì anche a necessità interiori, spirituali.

Ecco allora che, se pensiamo agli egizi come primi maestri di arte funeraria, ci sbagliamo, perché già 45000 anni fa - cioè 40000 anni prima - l'uomo preistorico seppelliva i defunti ornandoli di monili e suppellettili. Gli Asmat della Papua Guinea, ad esempio, celebravano un vero e proprio culto della testa, per cui fabbricavano teste di legno dipinte che venivano affiancate alla salma.

Se pensiamo alla medicina, ci stupiremo di scoprire pratiche di cura e assistenza ai malati, i cui segni sono stati ritrovati nelle sepolture di Shanidar sui monti Zagrei nel Kurdistan iracheno risalenti a 60.000 anni fa: le ossa dell'individuo trovato nella sepoltura in posizione fetale presentano segni di interventi di cura dopo lesioni, traumi e fratture e segni di pollini da fiori e semi di diverse piante utilizzati a scopo medicinale.

Se pensiamo alla narrazione, come capacità di creare mondi immaginari, scopriremo che le radici comuni delle fiabe popolari risiedevano nell'esperienza di iniziazione degli adolescenti al mondo adulto, per cui i ragazzi venivano allontanati da casa e spediti nel bosco in cui dovevano affrontare dure prove.

Evento, quello della conquista dell'età adulta, che veniva celebrato e festeggiato con canti e danze e la cui ritualità, una volta terminata la tradizione delle pratiche iniziativa, rimane come schema nelle narrazioni di tutti i popoli (allontanamento - prove - ritorno - conquista nuova identità).

Anche la narrazione segue una sorta di convergenza narrativa, risponde cioè al bisogno universale di dare risposte alle maggiori difficoltà della Vita: l'uomo adotta strategie narrative simili a grandi distanze, come emerge dallo studio comparativo delle mitologie di svariati popoli indigeni nei libri di Clarissa Pinkola Estes.

Tutto, osservando la storia della nostra evoluzione, sembra parlare di unità, tramite similitudini e ricorrenze.

Ma c'è una cosa che rimane molto variegata al suo interno ed è il linguaggio. Anche se non si sa ancora con certezza da dove nasca la prima lingua, sappiamo che i ceppi linguistici erano tantissimi e la varietà linguistica incredibile.

Le differenze linguistiche e genetiche nascono perché si creano comunità che non hanno scambi con altre. Nel lungo termine, questo porta a creare diversità genetiche e ramoscelli linguistici.

La lingua poi si evolve e cresce in sintonia con gli habitat: si sviluppa il lessico necessario a descrivere l'ambiente, che cambia nel tempo col mutare delle condizioni ambientali e sociali. Quindi tanto maggiore la biodiversità, tanto maggiore la ricchezza linguistica.

L'estinzione delle lingue fa parte dell'alterazione dell'ecosistema ad opera delle attività umane che marginalizzano le minoranze economiche e politiche.

In Nuova Guinea prima dell'arrivo degli occidentali si parlavano 5000 lingue, poi 700. Le lingue muoiono da sempre - vedi l'etrusco e l'ittita - ma da 5 secoli sono scomparse a velocità senza precedenti. L'evoluzione della diversità linguistica nel mondo moderno si riassume nell'espansione di poche lingue a scapito di altre.

Insieme alla biodiversità stiamo perdendo le lingue e stiamo mettendo a rischio la vita del pianeta, come mai prima.

Certo, il tempo ha estinto intere popolazioni con le glaciazioni e altre catastrofi naturali, ma ora sovrappopolazione, global warming, inquinamento e sfruttamento delle risorse rischiano di accelerare la prossima estinzione. Qualcuno si chiede se la peculiarità dell'Homo Sapiens, cioè sapersi adattare, sarà sufficiente a farlo sopravvivere ancora una volta. Di certo l'adattabilità è attiva e si manifesta nei grandi piedi e grandi stature delle nuove generazioni (nuovi grandi camminatori?) e nella mutazione genetica più recente, ossia il prolungamento dell'arto superiore generalmente destro con una propaggine chiamata smartphone.

Se gli adattamenti dell'Homo Sapiens ne potenziavano il corpo, siamo certi che sia lo stesso per la tecnologia? Non stiamo piuttosto trasferendo la nostra memoria alle banche dati, il nostro senso dell'orientamento ai navigatori, la nostra capacità logico-matematica ai calcolatori, le nostre abilità ai videogame e photoshop, le nostre relazioni alle chat, la nostra esperienza tattile e olfattiva allo shop online, la nostra capacità di osservare ed analizzare al rubare immagini?

Se la tecnologia venisse d'un tratto meno - in una non impossibile tempesta solare - i nativi digitali di oggi e del futuro, su quali abilità potrebbero contare?

È un peccato che la mostra Homo sapiens. Le nuove storie dell'evoluzione umana attiva in queste settimane al Mudecal  Museo delle Culture di Milano, dove ho appreso gran parte di queste informazioni, non affronti gli interrogativi che la ricostruzione storica proietta sul futuro.

Peccato davvero. Pare che mentre le architetture dei nuovi musei e i loro nomi (Mudec, Miart, Muse etc...) rispecchiano lo stile contemporaneo internazionale, i contenuti continuino ad essere esposti con un impianto didattico fondamentalmente classico, nonostante un make up d’immagine,  con una modalità poco incline a sviluppare il senso critico e la sintesi personale.

Un solo fatto la dice lunga: in questa mostra non si possono scattare fotografie. Ma a cosa servono le mostre se non a fare ricerca? E cosa ce ne facciamo di una ricerca che non possiamo ri-cercare, cioè letteralmente “cercare di nuovo”, se nell'era digitale non possiamo portare con noi nessun ricordo sintetico dell'esperienza? Ah già, forse una soluzione si trova: comprare il catalogo.

 

 

tags: biografia, biography
Monday 10.17.16
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In Cucina coi Ricordi

Mezza dose di sapori e aromi, un cucchiaio di memoria, una manciata di scrittura: questi gli ingredienti-base di un laboratorio che gioca a mettere alla prova il cosiddetto fenomeno-Proust, per cui gusto e olfatto scatenano lampi che illuminano gli angoli più bui della nostra memoria. I partecipanti degusteranno i “piatti forti della loro vita” cucinati appositamente per l’occasione e scriveranno la loro storia. Dulcis in fundo, il progetto grafico:

ognuno confezionerà storie e ricette in un Riceddiario,

con materiali dal design ricercato e l'ausilio di attrezzi Sizzix.

 

A CHI SI RIVOLGE

A donne - ma anche a uomini - amanti della cucina e attratti dalla scrittura autobiografica

(anche alla prima esperienza), senza restrizioni di età

 

A CURA DI

Elisa Barbieri (Giulietta Kelly), personal storyteller, socia di 00:am casa creativa

& Lena Tritto, insegnante di cucina di casa e docente Scuola Tao

 

 

DOVE&QUANDO

Sabato 15.10.2016 h 9-16

c/o Distretto Soci Coop, via Mansfield 2, Parma

 

ISCRIZIONI

Entro il 30 settembre via mail a rosilisp@hotmail.com

o telefonando al 393-3525945 dalle 15.30 alle 19.30

 

All’atto dell’iscrizione è richiesto di fornire

la ricetta del piatto forte della propria vita.

Partecipazione gratuita, previa iscrizione,

riservata esclusivamente ai Soci Coop

tags: COOP, Personal Storytelling, Proust
categories: Laboratory
Monday 09.19.16
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When romantic love ruins our lives

Everybody has some kind of teenage-like mania. Mine is to be a flaming fan of some literary authors as if they were Superstars. My idols are not many and mostly dead. Therefore the chances to meet them are not that frequent and when they happen, I try not miss them - using an euphemism, as actually I act live pretty much like a 14 year-old girl craving to go to a Justin Biber concert.

That is why, when I discovered that philosopher and founder of The School of Life Alain De Botton was lecturing in Mantova, I connected to the Festival Letteratura eshop the same early morning the ticket sale was opening. Unfortunately tickets were already sold out, as Festival members had bought them all in the pre-sale.

But, as just any fan girl, I'm not easy to dissuade. So I checked out the Super Speaker schedule on his website and found out that he was holding the same day the same speech (but at different time) in Milan. Without reservation and for free.

So I decided to leave my family for their sunday ice cream in the city center, involved 2 more Art-for-Emotional-Intelligence fan girls and drove to Milan. We entered the Triennale conference room one hour before the speech started and could even find 3 comfortable seats on the floor. But on the first row, for sure. That is what happens when somebody decides to turn philosophy into a popular thing.

So Mr De Botton held his lectio magistralis – or rather his cabaret - "Romantic love ruins our Lives" in 30 minutes of satirical sketches against today love's big enemy – romanticims, indeed. At the beginning I was quite scared that this masochistic choice would lead me to loose self confidence, as I must confess that I so far considered myself a romantic human being. Moreover I’m easy influenced by other people's opinion, let alone my idols’ opinions. But after De Botton's explanation I felt relieved, as I realized I’m (no longer) a romantic. Except for love for nature, clouds and that particular time of the day between 6 and 7 o’clock in the evening, when everything is perfect for love.

So, what are the points of this dangerous romanticim?

- the idea that marriage is related to love (not to struggle for existence)

- the idea that sex is the pinnacle of love (not the natural way to the survival of human species)

- the certainty that we are normal and other people crazy (not that we’re as crazy as everyone else)

- the belief that love has to do with instinct (not with skills)

- the expectations about being perfectly understood by our partner, even without speaking

So what is love, if not predestination, nor instinct, nor sex, nor marriage, nor telepathy?

It is a 100% human thing, something everybody can learn, just like riding a bicycle or play bridge. Well, maybe a bit more complicated. But it's still a skill, the skill to treat our partner with patience, understanding and empathy - in other words, as if he or she would be a 2 year-old baby.

I think this all makes a lot of sense, especially for teenagers and young people in general, who need to learn how to love from zero and who are becoming more and more romantic then their parents, as one can tell from their favourite love icon - padlocks.

And what about adults? Emancipated couples who would like not having to choose between honesty and love, who are open about the fact that, if falling in love lasts 9 months and then love becomes a day-after-day creation, also monogamous sex becomes boring after a while and requires some "restyling".

What De Botton suggests to adult lovers, is to decide to leave the partner only if he can 100% be blamed for all our problems and failures. If he happens to be not, we should stay together and learn to consider each other “lovable idiots”, adopting a high tolerance threshold and lots of (possibily british) sense of humour.

I would really like to know if De Botton has ever watched the Polyamory US TV series and his opinion about it.

Maybe some hints about this topic can be found in his latest book “The course of love” Il Corso Dell'Amore (ed. italiana Guanda, settembre 2016)

As a perfect fangirl, it’s already on my night table.

The School of Life founder (and voice behind this channel) Alain de Botton lays out his ideas on love in the modern world - at a conference by Google held in London in May 2016 called Zeitgeist [many thanks to them for the film].

Watch Alain De Botton's speech about love at a conference by Google held in London in May 2016 called Zeitgeist

tags: love, alaindebotton, romanticism
Thursday 09.15.16
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La scomoda autobiografia di Neruda

Vivere da poeti è vivere senza ragionevolezza. È vivere vicino al cuore, è ascoltare il battito profondo della terra e l'alta sinfonia delle galassie, è guardare con l'occhio invisibile il reale più reale, ma nascosto, è essere guerrieri della pace.

Mi sento poeta, perché mi muovono la bellezza, la gratitudine, l'amore, l'entusiasmo, la gentilezza.

Purtroppo il business vuole inglobare in sé tutto, persino il poeta, vuole farci credere che il poeta è chi scrive e pubblica poesia.

Ma il poeta, prima di scrivere, è.

E la poesia, prima di essere un mestiere, è un atto di pace.

Il poeta crede nel vegetale, nell'animale, nell'umano, nel siderale e nel mistero. Certo, la storia addita qualche poeta deragliato negli aberranti nazionalismi, come Céline o Ezra Pound. Ma la maggior parte dei poeti ha vissuto del coraggio di essere contro e anti, a favore prima di tutto della proprio acuto sentire, nonostante solitudini opprimenti, nonostante - spesso - persecuzioni.

"Il poeta nasce dalla pace come il pane nasce dalla farina. Gli incendiari, i guerrieri, i lupi, cercano il poeta per bruciarlo, per ucciderlo, per sbranarlo. Uno spadaccino lasciò Puskin ferito a morte fra gli alberi di un parco desolato. I cavalli di polvere galopparono impazziti sul corpo senza vita di Petöfi. Byron morì in Grecia lottando contro la guerra. I fascisti spagnoli iniziarono la guerra in Spagna assassinando il loro maggior poeta". (Pablo Neruda, Confesso che ho vissuto)

Neruda è stato una lettura scomoda, persino pericolosa, per me poeta a metà, che cerco di combinare poesia e borghesia, che relego la poesia negli stanzini e nelle anticamere, fingendomi soldatessa nei saloni.

La vita del grande cileno è stata coraggio, lotta, fuga, ribellione, rischio. Ha sempre saputo di essere poeta, tant'è che Neruda è uno pseudonimo scelto per nascondere al padre - che non voleva un figlio poeta - la prima pubblicazione giovanile, uno pseudonimo scelto ingenuamente sfogliando una rivista, senza sapere che quello era il nome di un scrittore cecoslovacco molto famoso in patria.

Neruda ha viaggiato il mondo, prima con l'alibi di console del Cile, poi come ambasciatore di pace, ha combattuto per il proprio paese e per il popolo spagnolo contro Franco, ha condiviso case, cibo, idee e cause con i grandi poeti spagnoli, russi, francesi, sudamericani.

Ha fatto della sua vita una via di ricerca, in una solitudine a volte colossale.

Pablo Neruda con la moglie Matilde Urrutia, che ha curato la pubblicazione autobiografia del poeta dal titolo "Confesso che ho vissuto"

Pablo Neruda con la moglie Matilde Urrutia, che ha curato la pubblicazione autobiografia del poeta dal titolo "Confesso che ho vissuto"

Leggere l'autobiografia di Neruda "Confesso che ho vissuto" non solo mi ha scatenato un'ammirazione stupita, non solo mi ha stimolato l'appetito di Paul Eluard, Federico Garcia Lorca, Rafael Alberti, Octavio Paz, non solo mi ha arricchito di tanti preziosi passi per la raccolta di citazioni che sto componendo da qualche anno, non solo mi ha portato in una Cina che non conoscevo e mi ha riportato in un Messico che ho conosciuto e amato, non solo mi ha scosso di parole e immagini sensazionali.

Il poeta mi ha interrogato sui fondamentali, ha puntato il dito dritto al cuore del mio cuore. Favorito forse da tête à tête notturni su una baia, in cui le luci degli alberi maestri si distinguono dalle stelle solo per il loro dondolio.

tags: autobiografia, autobiography, pabloneruda, neruda, poesia
Saturday 09.10.16
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Travel Personal Storytelling: Ivo from Mljet

Ivo Pitarevic, portrait by Alessandro Molinari

Ivo Pitarevic, portrait by Alessandro Molinari

ITALIANO

Vent'anni fa, molto prima di Airbnb, Home Away, Home Exchange, Homelidays, a Cuba sopopolava la moda delle case particular, cubani che avevano trasformato la loro casa, o più spesso parte di essa, in struttura turistica. Cosi avevo soggiornato a L'Havana, a Trinidad, a Cuernavaca, dove l'accoglienza era spesso più che spartana - nell'ultima delle località citate, al tempo ancora ben poco sviluppata, la famiglia ci aveva ceduto la sua capanna nel bananeto ed era andata a stare dai vicini.

Ora che viaggiare preferendo agli hotel le case della gente è diventato un grande sistema digitalizzato ed un piccolo business per molti giovani disoccupati disposti a condividere una stanza del loro appartamento, approfitto sempre di questa possibilità.

E così, abitando nelle case delle persone, scrutando le loro letture, indovinando le loro abitudini dall'organizzazione degli spazi, immaginando la loro personalità osservando gli arredi, ho conosciuto intimamente - pur senza averli mai incontrati - Florin di Londra, Yves di Parigi, Trevor di Minorca e altri.

Comincia però con Ivo di Mljet la rubrica di Personal Storytelling dedicata al viaggio "personal", o "particular", come direbbero i cubani.

Monti aspri come cuoio frusto sulla costa croata, i versanti solcati dalle bianche diagonali delle strade, con improvvisce strisce di verde, segno di portentosi venti e umidità, il bianco ottico delle pale eoliche e delle vele issate sugli alberi maestri. Verso sud sbiadiscono nella foschia i rilievi del litorale dalmata, montenegrino e poi albanese. Dalla barca da pescatore dipinta di fresco d'azzurro, le onde sembrano le falde della gonna di un immenso dervisci tourner. Dalle trasparenze dell'acqua bassa, si intravede il dondolio della poseidonia oceanica, con le lunghe foglie ossidate dalla salsedine. In una piccola radura di questa prateria sotterranea, s'aggrappa al fondo una stella marina.

Mljet incanta con i suoi aromi balsamici, coi suoi fichi maturi, i suoi melograni e bergamotti, col verde accecante dei suoi pini d' Aleppo, che misteriosamente ricoprono la crosta di quest'isola su cui si narra che Ulisse incontrò Calipso.

Qui ci è venuto incontro all'arrivo un pescatore alto due metri, a torso nudo e con pantaloncini consunti, un po' gobbo, con la voce profonda, gli occhi malinconici e le sopracciglia folte e lunghissime.

Eliza, you arrive here, all alone! You have so much positive energy!

Ha continuato a tuonare ogni giorno, tra le pulizie degli appartamenti, le uscite a pesca, il check out di un ospite o la grigliata per un altro.

Ivo, si chiama quest'omone filiforme, dallo sguardo buono e dalla gran voglia di parlare, nonostante l'inglese precario. Gli piace insegnare, a Ivo. Racconta di corde, boe, ancore, catene, venti, onde senza coniugare i verbi, infilando qua e là parole croate, italiane e dialetto dalmaziano, poi ti chiede "Understand?" e, dopo tutti i suoi sforzi, non puoi che dirgli di si.

Ci offre il pesce che pesca, entra in cucina e preleva dal tegame per allungarcelo un generoso assaggio di quello che sta cucinando la moglie Mirjana, cuoca all'ospedale di Dubrovnik ed ex cuoca dello Stermasi, il miglior ristorante dell'isola. Mai mangiato un capretto arrosto cosi fenomenale!

Ivo ci offrirebbe tutto, prenoterebbe per noi un sole della giusta temperatura e un maestrale della giusta intensità, se sapesse la lingua ci racconterebbe barzellette per tenerci allegri. Ha staccato dalla rete da pesca che decora la parete della sua cucina un'enorme conchiglia per scusarsi di un disguido irrilevante. Ci ha portato con lui a pescare, ci ha spiegato il motore entrobordo, la pesca con le gabbie, ci ha fatto impugnare il timone. Alla terza gabbia che ha sollevato dalle profondità, orrore!, due murene! Eliza go back! Mi ha fatto spostare, ho preso mio figlio in braccio mentre lui rilasciava sul pagliolato i due neri rettili di mare e subito ha cominciato a colpirli con una clava finché ha ammazzato la grande, mentre la piccola è riuscita a sgusciare via e infilarsi sotto il motore. Ivo allora ha preso il coltello e l'ha tirata fuori infilzata per la gola.

Ivo è un gigante sanguigno, affettuosamente invadente, osservatore, istintivo, curioso della gente, con un rispetto antico e una semplicità saggia che lo tiene vicino al suo cuore. E' un romantico che ancora aspetta il tramonto per caricare sua moglie Mirijana e due birre sulla barca e fare rotta verso il sole rosso.

Oggi, giorno dell'Assunzione di Maria in cielo e a due mesi dalla morte della madre, per la prima volta Ivo ha indossato le scarpe e i pantaloni lunghi, e col figlio più piccolo e più solare dei tre è salito sull'auto bella per andare alla processione, contrariato solo dal rifiuto della figlia di andare con lui.

Era bastato parlargli per telefono per capire che per quell'uomo concreto nulla era più importante della parola data, del contatto umano, delle stagioni per pescare e raccogliere le olive. Per abuso d'empatia, al telefono mi ero messa a parlare un inglese così ingolfato, che mio marito si chiedeva cosa mi stette succedendo.

Don't worry Eliza, no problem. Ripete Ivo, anche quando ci s'inceppa il motore della barca che ci ha noleggiato.

Per Ivo di Mljet, sindaco di Saplunara, grande fan dell'energia positiva e grande oppositore dell'industria e dell'arroganza, tutto si aggiusta, basta non avere fretta. Ma in fin dei conti, che fretta bisognerebbe mai avere affacciati  su una baia silenziosa dal nome dolce e avvolgente come Saplunara?

 

ENGLISH

Twenty years ago, long before Airbnb, Home Away, Home Exchange, Homelidays, in Cuba the casa particular was the hottest trend. Cubans used to transform their house or part of it into a bed and breakfast. I stayed in a casa particular in L'Havana, in Trinidad, in Cuernavaca -  in the last one, a tiny seaside village, at that time still undeveloped for tourism, a family gave us their shed in the middle of a banana orchard and went to stay at the neighbours shed.

Now that travelling by staying in people' s houses have become a big digitalized system and a small business for young unemployed, I usually take advantage of this possibility.

By staying in private accomodations, you get to know people without even meeting them, only by observing the layout and the interior design of their flat, by peeping into their books, paintings, pictures. It' in this way that I got to know Florin from London, Yves from Paris, Trevor from Minorca and others.

But it's with Ivo from Mljet - whom I get to know directly, as he lives just beside the flats - hat this Travel Personal Storytelling section begins.

Harsh mountains like worn leather on the croation coast, the slopes ploughed by white roads, with sudden green stripes, sign of prodigious winds and humidity, the optical white of the eolic generators and of the sails on the masts. Southwards the croatian, then montenegrin, then albanian reliefs fade into the haze. From our fishing boat newly painted in light blue, waves look like the skirt of an enormous dervisci tourner. Under transparent water you can see the swinging of the poseidonia oceanica with its long leaves oxidized by salt. In a little clearing of this underwater grassland, a starfish grabs on to the ocean floor.

Mljet enchants with its balsamic herbs, figs, bergamots and pomegranates, with the blinding green of its Aleppo pines, that misteriously cover the crustal plate of this island, where it is said that Odysseus met Calypso.

Here we have been welcomed by fisherman and former sailor Ivo, a two-meter-tall man, a bit round-shouldered, bare-chested, with worn shorts, a deep voice,  melancholic eyes and extra long eye brows.

"Eliza you made it all alone til here! You are so full of positive energy!" he kept on thundering everyday, between one cleaning, a check out or a grill and another.

Ivo, that's the name of this thin man, with a mild look and who likes to chat, despite his poor English. He likes to teach, also. He talks about ropes, boats, waves, fish, winds, buoys, chains, without conjugating verbs, inserting here and there Dalmatian, Croatian, Italian words, then he asks you full of hope "Understand?" and you cannot but say yes, after his such big effort.

He offers us the fish he fished in the morning, he goes into his kitchen and takes out of the pan one big portion for us of some typical dish that is beeing cooked by his wife Mirjan, now cook at the Dubrovnik hospital and former first chef at Stermasi, Mljet's best restaurant, where you can taste delicious under-the-bell octopus or lamb. Never tasted a better kid then Mirjana's one!

Ivo would offer us everything, would book for us the right air temperature, would make jokes all the times to keep us cheerful. He removed a huge shell from the fishing net decorating his kitchen's wall and gave it to me to apologize for an irrelevant mistake.

He took us to fishing with him, explained to us how his boat's engine and fishing with cages work, he let us take the helm. At the third cage he lifted from the depth of the sea - horror! - two moray eels! Eliza go back! I picked my son up while he released the black sea snakes on the floor of the boat and started to hit them with a stick. He killed the big one whereas the second one managed to flew and hide under the motor. Then Ivo took a knife and he pulled it out pierced through the throat.

Ivo is a full-blooded giant, an affectionately intrusive person, an observer who can still trust his instinct, have respect and be authentically close to his heart. He's a romantic husband who takes his wife on his fishing boat with two beer bottles and heads for the sun at sunset time.

Today it's Virgin Mary's Assumption day and Ivo has put on for the first time in ten days long- sleeved shirt and long trousers. He has taken the good car and has driven to Koriza with the youngest son, the most cheerful one, to the service. When he left he was a bit nervous, I guess maybe it was because his daughter did not want to go.

It had been enough talking to him over the phone for the reservation to seize that, for that practical man, nothing was more important then a promise, a dialogue, and the season for fishing and picking olives. This all was a perfect premise for the relaxing holiday I was looking forward to. For enthusiasm and an excess of empathy, I started talking with him in a totally basic, even stammering, English.

Don't worry Eliza, no problem, keeps on saying Ivo, also when the engine of the boat we rented from him would not start again.

For Ivo from Mljet, mayor of Saplunara, a big fan of positive energy and a fighter of industry and arrogance,  everything can be fixed, you just do not need to hurry.

On the other hand, why should you ever hurry up, in the peaceful bay with the sweet name of Saplunara?

by Elisa Barbieri

 

Contact

Ivo Pitarevic

http://www.apartments-ivo-mljet.hr/en/

 

tags: Travel Personal Storytelling
categories: Personal Storytelling
Monday 08.29.16
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Io, chi? Intervista al filosofo Thomas Metzinger sull’identità nella realtà virtuale

Il filosofo Thomas Metzinger dell'Università di Mainz

Il filosofo Thomas Metzinger dell'Università di Mainz

Sarà perchè, come autobiografa, ho impiegato per mesi a ricostruire il mio io. Sarà perché come mamma ho passato sere con altri genitori coinvolti nel progetto Cittadinanza Digitale per produrre una carta etica del comportamento online. Oppure sarà perché una sera un amico, direttore IT di un grosso ente, mi ha invitato a cena e mi ha fatto provare dei visori 3D di ultima generazione sotto forma di occhiali in cui si inserisce il cellulare e si ha la possibilità di immergersi completamente in una realtà virtuale, che si cotruisce seguendo le direzioni del proprio sguardo.

Più probabilmente sarà per tutti e tre questi motivi insieme, che mi ha colpito l'intervista apparsa sul settimanale tedesco der Spiegel al filosofo Thomas Metzinger. La rivoluzione digitale ci permette di assumere altre identità. Dove ci porta questo? Alla perdita dell’io?

E’ tutto possibile. Persino robot che soffrono per davvero – sostiene Metzinger.

Traduco l’intervista per voi.

SPIEGEL: Signor Metzinger, per un ricercatore della coscienza deve essere un periodo interessante, questo. Essere tante persone contemporaneamente è reso possibile dalla rivoluzione digitale: posso essere elfo, se voglio, oppure cyberpunk oppure gladiatore o nano…

METZINGER: …posso immergermi totalmente nella realtà virutale indossando dei visori 3d sotto forma di occhiali e sperimentare come cambia la sensazione di me stesso e di quello che riteniamo essere la nostra esperienza consapevole, reale ed autentica. Quest’anno è probabile che questi prodotti entrino sul mercato in modo massiccio.

SPIEGEL: Li ha provati?

METZINGER: Naturalmente. Nella realtà virtuale sono stati sviluppati dei modelli corporei molto buoni, praticamente già i primi modelli di un io artificale. L’ultima volta che ero in laboratorio, mi sono incarnato in una donna, che era alta come un ragazzino di 14 anni. Ho guardato con i suoi occhi, poi tutto d’un tratto lei è stata aggredita da un altro Avatar.

SPIEGEL: Spiacevole…

METZINGER: Per un momento mi sono spaventato: indossavo questi visori 3D sotto forma di occhiali, ero seduto in una stanza, immerso nella realtà virtuale, nella TV davano un video musicale, c’era un camino col fuoco acceso, quando ho guardato in basso e mi sono accorto, che il mio Avatar non era ancora stato creato. Avevo la sensazione di essere seduto, ma guardando in basso ho visto solo la sedia vuota.

SPIEGEL: Mancava qualcosa…

METZINGER: Si, il mio corpo. Raccapricciante.

SPIEGEL: A cosa servono queste prove?

METZINGER: Hanno a che fare con la percezione. Per esempio, ci possono essere molti utilizzi clinici, nella psicoterapia, ad esempio, oppure per creare ambienti di apprendimento completamente nuovi. Ci si può allenare a combattere la paura dell’altezza, gli anoressici possono fare una nuova esperienza del loro corpo, ci sono esperimenti per costruire avatar per le persone paralizzate attraverso un’interfaccia cervello-computer.

Le tecnologie di realtà virtuale possono servire per facilitare l’empatia, oppure per distruggerla. Questi metodi sono potenti strumenti di manipolazione psicologica. Ora è importante stabilire degli standard etici, per la ricerca, certo, ma anche per la quotidianità, per la relazione interpersonale nella realtà virtuale.

SPIEGEL: Come filosofo che studia il confine tra scienze della natura e dello spirito, ci dica: cosa fa di noi la realtà virtuale? Come cambia la rivoluzione digitale ciò che intendiamo per “io”.

METZINGER: Di preciso non lo sa nessuno. Quello che sta succedendo ora è una specie di esperiemento di massa. Può essere che l’identificazione totale con gli Avatar cambi la percezione dell’Io, all’inizio in maniera impercettibile. Potrebbe essere che le persone, che per lungo tempo vivono nella realtà virtuale, in seguito possano soffrire di disturbi di spersonalizzazione, ossia la sensazione cronica che il corpo reale, nel mondo vero, non sia più reale. Oppure il fatto di percepirsi come degli automi oppure che tutto ciò che ci circonda sia un sogno.

SPIEGEL: Le novità sono sempre minacciose. Nel 18mo secolo si temeva che l’ascesa del romanzo potesse scatenare una “foga da lettura” nei giovani. Poi è diventato un pericolo la Tv, ora Internet.

METZINGER: E Platone ha criticato già nel Fedro la scrittura, per via del fatto che indebolisce la memoria e non sia adatta al trasferimento della saggezza. La realtà virtuale che abbiamo studiato, è però diversa da un film o da una chatroom. L’utente ha una percezione diversa perché tutto ciò che lo circonda è stato disegnato dai creatori della realtà virtuale. La persona che si muove all’interno della realtà virtuale vive l’illusione di possedere e controllare un corpo, che non è il suo. Questa tecnica cambia il rapporto con noi stessi. SPIEGEL: Lo spazio virtuale e più in generale digitale è un mare di possibilità: cosa che non deve essere per forza cattiva. In Facebook ci sono circa 60 tipi di identità di genere. Posso decidere liberamente, se voglio essere uomo, donna, transessuale, bianco o nero. Da qui l’eterna domanda: chi sono? Chi voglio essere? Decidere non è allettante?

METZINGER: Se non si perde la propria autonomia spirituale, sì. Cliccando su Internet abbiamo una gamma di opzioni infinita, certo. Ma c’è anche il rischio enorme che ciò che clicchiamo non sia la migliore delle opzioni. Questo ci mette dubbi e in realtà l’essere umano non ama l’insicurezza. Un brillante scienziato inglese, Karl Friston, ha sviluppato un modello matematico, che precisa l’idea di base di Kant e Helmholtz in relazione a ciò che fa il cervello. Semplificando, il cervello fa sempre questo: riduce l’insicurezza, evita le brutte sorprese.

SPIEGEL: Perché abbiamo così paura?

METZINGER: Noi esseri umani col nostro cervello siamo sistemi che cercano costantemente le prove della propria esistenza. Vogliamo costantemente sapere, se esistiamo ancora. Abbiamo bisogno di segni che dicano: non sono morto, sto bene. La vita e la coscienza sono profezie di auto-realizzazione.

SPIEGEL: Così come i maniaci di Twitter o dei selfie, che devono sempre far sapere al mondo tutto ciò che stanno facendo. Come dire: guardate qui, ci sono, esisto.

METZINGER: Si l’estensione isterica e costante del modello di sé nel mondo dei media.

[…]

SPIEGEL: Anche la realtà virtuale ha bisogno di nuove forme di coscienza. Tant’è, che Lei ha già presentato un codice etico di comportamento online.

METZINGER: Si, perché ci sono tanti aspetti da chiarire. C’è bisogno di un “diritto al proprio avatar”, connesso al diritto d’utilizzo della propria imagine? Presto si potranno resuscitare i morti, come Avatar. Che conseguenza ha questo sull’elaborazione del lutto da parte di chi rimane, è un bene o un male? Quali sono i costi delle conseguenze psicosociali dello sviluppo delle nuove tecnologie, se sempre più giovani diventeranno dipendenti? Presto si potrà entrare in un film porno in modo molto più profondo e interattivo, con un’esperienza corporea completa, che coinvolge anche il senso del tatto, potendo quindi prendere parte direttamente anche ad azioni perseguibili fino a poco prima nel mondo reale. Cosa succederà alle persone? L’industria del porno deve essere fortemente regolamentata, allora?

SPIEGEL: Fino ad ora l’abbiamo seguita: nuovi sviluppi portano nuove conseguenze. Ma nel suo libro “Il tunnel dell’io”, che ha presentato da poco, lei mette in guardia rispetto alla creazione di un coscienze artificiali. Con un’argomentazione singolare.

METZINGER: La mia tesi è che non dovremmo creare soggetti artificiali, perché in questo modo potremmo produrre una grande quantità di dolore, senza che sia necessario.

SPIEGEL: Robot che soffrono?

METZINGER: Si, è pensabile.

SPIEGEL: Davvero, robot che soffrono? Non sono né persone, né animali, né piante. Solo macchine.

METZINGER: L’hardware è insignificante. All’interno dell’intelligenza artificale c’è un dibattito su alcuni soggetti artificiali eccezionali

SPIEGEL: Cioè quelli che dispongono di una coscienza?

METZINGER: Si. Oggi possiamo costruire robot che simulano il dolore in modo fantastico, che hanno sensori e magari persino urlano, e nessuno crede che loro sentano davvero male. Ma prima o poi questo dolore ci sarà veramente. La biorobotica costruisce robot con hardware biologico. Ci sono ricercatori che costruiscono robot capaci di curiosità, fame, sete, rabbia – si tratta di esseri ancora senza coscienza, ma prima o poi ci arriveremo.

SPIEGEL: Davvero?

METZINGER: Dico: se vogliamo mettere in campo un’evoluzione artificale della coscienza – cosa che non succederà sicuramente né oggi né domani, ma forse un po’ dopo sì – allora ci sarebbe un rischio molto alto. Potremmo smuovere delle cascate, duplicare tramite Internet molte copie di modelli di coscienza artificiale, che probabilmente soffriranno della loro esistenza.

SPIEGEL: Questa è fantascienza.

METZINGER: Ma penso che ce se ne debba occupare.

[…]

In fin dei conti, questa storia dei robot che s’innamorano, godono e poi s’arrabbiano, s’ingelosiscono e vanno per la loro strada non l’avevamo già vista nel film “Lei”? Solo che solo qualche anno fa, nel 2013, quando che la sceneggiatura di Spike Jonze vinse l’Oscar, pensavamo fosse una storia di fiction (e non di probabile prossima non-fiction). J

A questo link, invece, un video in cui si mostra come le nuove tecnologie possono migliorare la vita e le relazioni dei portatori di handicap.

https://www.aktion-mensch.de/neuenaehe?et_cid=58&et_lid=274024

 

 

tags: identity, virtual reality, ethical code
categories: Personal Storytelling
Monday 05.30.16
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Tutti i numeri di Christo

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Qualche mese fa, grazie alla collaborazione con la direttrice creativa di Add NY Erin Bazos, Alessandro ed io abbiamo conosciuto personalmente Christo e il suo team di lavoro al The Floating Piers, l’opera d’arte che tra poco più di un mese sarà visitabile sul Lago d’Iseo, per rimanere esperibile dal pubblico gratuitamente per 15 giorni.

E’ stata un’occasione incredibile, perché fino a quel momento anche io, come molti, quasi non credevo che Chisto esistesse veramente. Certamente conoscevo la sua fama planetaria di grande artista, ma appunto perché le sue opere hanno da decenni conquistato un tale posto privilegiato nell’immaginario collettivo globale, pensavo inconsciamente che il personaggio dietro le inconfondibili icone fosse una specie di leggenda, ossia avesse perso la sua tridimensionalità per smaterializzarsi nell’olimpo dei miti, facilitato all’ingresso da un nome assolutamente in tono.

E invece, non solo Christo esiste per davvero, ma ho persino avuto modo di conoscerlo, parlargli e scoprire la sua propensione pedagogica, motivo per cui mi sono industriata perché tenesse una lezione a NABA, l’accademia milanese di belle arti con cui mi capita di collaborare.

Così Christo, nella sua immancabile sahariana, qualche giorno fa è venuto a Milano a fare una lezione ad un folto pubblico di giovani aspiranti artisti, con tutta la sua incredibile energia di 81enne entusiasta e provocatorio, talmente preso dalla passione per il suo lavoro da non concedersi mai una sosta. Non a caso è stato in piedi tutto il tempo e ha dichiarato di non possedere nemmeno una sedia nel suo ufficio di Manhattan. Pensa spostandosi, disegna camminando. Salvo poi fissare successivamente tutto su carta, odiando il computer.

Christo quindi non solo esiste per davvero, ma per davvero sposta grandi numeri in questo mondo – quintali di materiali, cifre di denaro a molti zeri, migliaia di tecnici, governanti, operai, centinaia di migliaia di visitatori.

E per numeri l’artista ha presentato lo showreel delle sue opere, dal 1960 al Floating Piers di oggi. Ogni opera, una lista di dati stupefacenti. Stupefacente la mole delle opere, il loro costo, la lunghezza del processo, che ha richiesto in molti casi oltre 20 anni dal primo schizzo alla realizzazione (numerosi persino i progetti non realizzati, circa 20).

Un esempio su tutti: per The Gates a Central Park NY l’artista – o meglio la coppia di artisti, perché Christo ha fin dagli inizi lavorato in strettissima sinergia con la compagna Jeanne-Claude mancata nel 2009 – ha ingaggiato 900 operai per installare su un percorso di 37 km 7.503 cancelli alti 4,87 metri e larghi da 1,68 a 5,48 metri, senza fare buchi nel terreno, ma fissandoli su 15.006 basi di metallo dal peso variabile tra i 270 e i 380 chili, per un quantitativo totale di acciaio pari a 2/3 di quello utilizzato per costruire la Tour Eiffel.

Un approccio quantitativo sorprendente per noi vecchi europei, avvezzi a un’idea romantica o quantomeno concettuale dell’arte.

La durata di The Gates – similmente ad altri progetti – fu inversamente proporzionale all’imponenza dell’opera: solo 16 giorni.

Un controsenso?

Ecco che qui, finita la carrellata del portfolio e iniziata la parte delle domande, messa da parte quella che lui stesso chiama la sua parte capitalista di marxista bulgaro fuggito, Christo tira fuori, senza cambiare la sua verve secca ed ironica, il pensiero sotteso alla qualità nomade che caratterizza il suo lavoro fin dagli esordi.

Cioè: no, la breve durata delle opere non sono in contraddizione con il lavoro di anni che le precede, perché Panta Rei, tutto è flusso. Christo e Jeanne-Claude si definiscono “nomadi dell’arte”. Così come si è passeggeri della vita. E’ quindi piuttosto il costruire qualcosa con l’idea di permanenza che si rivela essere un’illusione, mentre al contrario costruire qualcosa di dichiaratamente temporaneo è realistico e allo stesso tempo poetico, perché rende possibile cogliere l’attimo fuggente. I visitatori che avranno la fortuna di vedere l’opera sapranno di avere preso parte a qualcosa di eccezionale e irripetibile.

Nessun progetto di Christo verrà mai replicato, una volta realizzato. Certo, l’idea prima di essere concretizzata è trasferibile geograficamente, come nel caso di The Floating Piers, la cui prima localizzazione doveva essere sul delta del Rio de la Plata in Argentina e poi nella baia di Tokyo (in entrambi i casi il progetto non fu mai autorizzato). Per qualche misteriosa ragione, invece, i tempi per il progetto italiano sono stati fulminei: nel 2014 la scelta dell’artista di questo lago caratterizzato dall’affascinante presenza di Monte Isola e nell’estate del 2016 la realizzazione. Come ha detto lui stesso in conferenza, i sindaci dei paesi coinvolti hanno impiegato si e no mezzora per sentenziare il loro “approvato”!

Ma c’è un altro aspetto molto interessante della filosofia di Christo: l’opera d’arte non è quella che vedremo al lago di Iseo o che avremmo potuto vedere a Berlino con il suo Reichstag impacchettato. No, quello è solo l’effetto spettacolare dell’opera, la punta dell’iceberg di un lavoro preparatorio – studio, ingegnerizzazione, prototipazione, testing, approvazione, messa in sicurezza e in regola - che è esso stesso parte viva dell’opera, così come è arte integrante le fotografie dei progetti, motivo per cui fa parte del team stabile di Christo il fotografo Wolfgang Volz.

Con una consapevolezza comunicativa ante-litteram – poiché oggi sappiamo quanto gli allestimenti vengano progettati non tanto in funzione dell’evento live, quanto in base alla loro fotogenia che li immortala nei pixel della rete - Christo progetta l’opera fin dagli albori pensando all’inquadratura, al contrasto cromatico, alla forza dell’impatto dell’immagine creata dalla sua mano sulla natura.

L’opera è il viaggio, dice Christo, non la meta. Così si motiva la sua energia vibrante e accesa, di artista che non teme le sfide impossibili, che pensa in grande, fino a provocare gli ambientalisti con progetti che dominano la natura e addirittura a stravolgere le logiche del business, arrivando ad autofinanziare le proprie opere, grazie a un complesso sistema societario, in modo da garantirsi autonomia e libertà.

Una lezione non solo di arte, ma di vita, per gli studenti di NABA, che hanno affollato l’Aula Magna in una giornata uggiosa, rischiarata solo dai colori solari delle passerelle sui laghi, delle bandiere nei parchi, degli ombrelloni nei deserti, frutto della vivida immaginazione di un anziano signore dall’invidiabile giovinezza.

Tanto che una studentessa dell’architetto Germana De Michelis, docente di Urban Design a NABA (per leggere il suo post sulla lecture clicca qui), ha commentato così “Christo ha quasi 81 anni e io quasi 21…ieri sera nel godermi il suo entusiasmo mi sono sentita vecchia e ho capito che devo alimentare ogni giorno la mia passione per sperare di ringiovanire nei prossimi 60 anni!”

tags: Christo, Public speaking, The floating piers
Friday 05.20.16
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5 cose che vorrei dire a Bill Viola

Qualche giorno fa mi sono imbattuta in un breve documentario realizzato dal Louisiana Museum of Modern Art su Bill Viola, il famoso videoartista americano. Apre il documentario il frammento dell’opera The Raft  (2004), in cui una ventina di persone diversissime tra loro pare aspettare un autobus, quando viene investita in slow motion da un’ondata d’acqua. Da altri spezzoni di opere, alcune più datate come The Crossing (1996) e altre più recenti come Inverted Birth (2014) appare chiaro il legame dell’artista con l’acqua.

Il documentario mostra lo studio all’interno della casa in cui l’artista lavora, pieno zeppo di libri ovunque. L’origine delle opera di Viola è molto culturale e spesso spirituale, nutrita di poesia, come nel caso di Room for Saint John of the Cross (1983), la video installazione dedicata al martire mistico e poeta cristiano del ‘500 San Giovanni della Croce.

L’artista definisce il proprio lavoro come un’indagine costante su se stesso, una scavo che scandaglia incessantemente la propria personalità e la vita stessa. “There's more than just the surface of life" Viola spiega. "The real things are under the surface". Perciò rimango a bocca aperta quando, alla domanda dell’intervistatore sul perché della ricorrenza così forte dell’acqua nelle sue opere, l’artista confessa candidamente di averne realizzato il motivo solo recentemente, grazie alla domanda di un giornalista: “Sig Viola, forse è successo qualcosa nella sua vita, che ha in qualche modo causato questa sua attrazione per l’acqua?”

E lì, dopo anni e anni di indagine su se stesso, Viola finalmente collega l’acqua ad uno dei suoi primi ricordi: a 6 anni cadde in un lago, scese fino a toccare il fondo, un luogo che gli sembrò paradisiaco. Fu salvato dallo zio che si trovava con lui.

Mi sembra pazzesco. Stupita, mi chiedo come può un artista dedicato all’esplorazione delle proprie visioni, intuizioni, ispirazioni, concentrato sull’elaborazione attraverso il proprio sguardo personale del mondo, essere così poco consapevole della propria storia e degli eventi cruciali che hanno formato quello stesso sguardo protagonista delle proprie opera.

Certo, da una parte il fascino del lavoro artistico consiste nella spontaneità, nell’abbandonarsi al flusso dell’idea, senza interporre interpretazioni e auto-analisi. O forse Bill Viola - come confessa Doris Lessing “Da che ho memoria l’ho sempre fuggita” - non si trova a proprio agio con la propria memoria.

D’altra parte, è evidente il paradosso di un lavoro che vuole indagare la propria soggettività ma, allo stesso tempo, la ignora, volontariamente o no, o la fugge.

Viola, però, pare ricordare l’aneddoto della domanda del giornalista con gratitudine, riconoscendo la preziosità di quel momento epifanico.

E allora, quello che vorrei dire al Sig. Bill Viola – chiedendogli di perdonare la mia presunzione - è:

1.     Caro Sig. Viola, continui a indagare la sua infanzia, che è lo scrigno delle nostre fragilità e passioni!

La memoria, una volta innescata la miccia, continuerà a regalare scoperte e a rivelare nessi. Scrive con tono entusiasta il primo grande autobiografo S. Agostino nelle sue Confessioni: “Quando sono là dentro, evoco tutte le immagini che voglio. Alcune si presentano all'istante, altre si fanno desiderare più a lungo, quasi vengano estratte da ripostigli più segreti.”

2.     Se Lei, Sig. Viola, è, come tutti, alla ricerca della felicità, vorrei ricordarle la massima greca iscritta nel tempio di Apollo a Delfi: “conosci te stesso”. Questo detto può sembrare in opposizione al conoscere il mondo, ma le due conoscenze possono considerarsi due facce di una sola medaglia: una conoscenza viva e attuale non può prescindere dalla mente che conosce

3.     Nel Suo caso, Sig. Viola, è stato il dialogo, con la sua importante funzione di specchio e restituzione, a far affiorare una verità creduta perduta. Provi a sperimentare la scrittura come mezzo di conoscenza di se stesso! L’esercizio regolare della scrittura Le consentirà di intraprendere un percorso di conoscenza di se’ strutturato e completo, attraverso la Sua evoluta capacità di riflessione, la Sua intelligenza, ossia la Sua capacità di intus legere, di leggere dentro se stesso e dentro le cose, andando oltre la superficie

4.     L’autobiografia è diventata una gran moda, questo si sa, perché sancisce l’appartenenza all’Olimpo della notorietà, ma di certo non è appannaggio esclusivo delle star e dei Vip, anzi. Nel suo caso, Sig. Viola, pur appartenendo a questo Olimpo, l’autobiografia può essere un lavoro utile a capire meglio come dare più spessore al proprio lavoro attuale e a progettare con più consapevolezza quello futuro, perché la scrittura di sé è come se portasse alla luce tutto ciò che è stato vissuto, di cui non si ha ancora un’immagine complessiva.

5.     Scrivere di sé, nelle varie forme autobiografiche - dal diario, alla poesia, alle confessioni, alla scrittura contemplativa fino alla forma più compiuta dell’autobiografia vera e propria - non è un’azione narcisistica, ma uno strumento di lavoro faticoso e allo stesso tempo potente, per radicare la propria espressione, rafforzarla, renderla agente di trasfromazione. Scrive l’acculturata ebrea di Amsterdam Etty Hillesum nel suo Diario edito da Adelphi – cronaca in prima persona della persecuzione nazista degli ebrei - “La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e “lavorare a se stessi” non è proprio una forma d’individualismo malaticcio.  Una pace futura potrà essere veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso.”

Infine, se decidesse di scivere di sé, caro Sig. Viola, sarei felice di poterla aiutare.

When video artist Bill Viola was 6 years old he fell into a lake, all the way to the bottom, to a place which seemed like paradise. "There's more than just the surface of life." Viola explains. "The real things are under the surface". American Bill Viola (born 1951) is a pioneer in video art.

tags: personal storytelling, bill viola, the raft, louisiana museum of modern art, autobiography
Thursday 04.28.16
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Self-Souvenir: prove di autoritratto kitsch

Se dici kitsch la prima cosa che ti viene in mente è un oggetto, dalla statuetta metereologica al pesce palla imbalsamato, dal maculato ai tessuti animalier in genere, dai pantaloncini tirolesi al boa di struzzo. Quando Federica Bianconi, curatrice di #theStrangeDays mi ha invitato a quella pazza 3 giorni d’apertura del Festival della Creatività di Parma, chiedendomi un lavoro sul kitsch, all’inizio ho pensato – in modo presuntuoso e, come avrei presto scoperto, kitsch esso stesso – che il Personal Storytelling c’entrasse poco, se non altro per la sua natura intellettuale, relazionale e fisica.

Poi - in una sottospecie d’illuminazione - mi è venuto in mente che il simbolo del kitsch, cioè il souvenir, l’oggetto-cartolina preso come piccolo trofeo delle nostre peregrinazioni, è il sostantivo francese per “ricordo”, che a sua volta deriva dal latino ricordare, che significa “portare al cuore” (siccome allora si pensava che il cuore fosse la sede della memoria). Insomma, tutti ingredienti di prima scelta della scrittura di sé.

Questo piccolo trip etimologico mi ha galvanizzato a tal punto di accettare la partita.

Poi mi sono ricordata di un’amica che non vedevo da tempo, che s’era laureata col kitsch. Abbiamo preso una birra assieme. Parla, parla, realizziamo che il kitsch è dappertutto, basta scorrere la bachecha di Facebook, fare zapping, guardare la pubblicità. Ma che differenza c’è tra quel tipo di kitsch e l’atteggiamento snob di noialtri, che organizziamo una kermesse del kitsch, con la malcelata intenzione di assaporare il cattivo gusto (proibito) mantenendoci nel buon gusto?

Il nome di quella differenza, che già era nell’aria, lo coniò Susan Sontag negli anni ’60 battezzando lo stile “camp” – dal francese “se camper”, mettersi in mostra. Cioè, nel momento in cui si sceglie deliberatamente qualcosa di stravagante, vistoso, eccessivo, non si è più kitsch (cosa che ha a che fare, a questo punto, con l’ingenuità) ma si diventa camp. A meno che non si faccia del kitsch consapevolmente, ma senza dichiararlo, con la volontà di provocare un effetto sentimentale preciso, come osservò Eco nel caso del pittore Boldini, che dipingeva le donne dalla vita in giù con sapiente tecnica impressionista e dalla vita in su con una precisione pornografica, tesa ad evidenziare le fattezze in pose seducenti, in modo da spacciare un dipinto ad alto tasso erotico per un ritratto di nobildonna.

Quest’idea del prendere le distanze dal kitsch, usarlo con ironia, identificarlo, separarlo, mi è piaciuta e ho cominciato a cercarne esempi in quella che è la materia prima del Personal Storytelling: la letteratura.

Ed ecco un efficace corrispettivo letterario del Boldini nel libro “Deutscher Kitsch” (1962), in cui il critico letterario tedesco Walther Killy crea un maligno pastiche, in cui mette insieme i brani di 6 autori tedeschi produttori di rinomata merce di consumo, accomunati dal voler provocare un effetto liricizzante e disposti ad usare ogni mezzo per farlo – dall’accumulo di verbi allusivi, alla ridondanza di aggettivi liricizzanti, all’utilizzo spropositato di stereotipi poetici.

“Sussurra lontano il mare e nel silenzio fatato il vento muove teneramente le rigide foglie. Una veste opaca di seta, ricamata in bianco avorio ed oro, fluttua attorno alle sue membra e lascia scorgere un tenero collo sinuoso, sul quale gravano le trecce color di fuoco. (…) Brunilde era seduta al pianoforte e faceva scivolare le mani sulla testiera, immersa in un dolce fantasticare. (…) E fuori il vento notturno carezza col tocco delle sue tenere mani la casa d’oro, e le stelle vagano per la notte invernale.”

Sicuramente leggere a voce alta questo estratto – breve ma sufficientemente stucchevole - fa ridere d’imbarazzo, può essere utile a stilare un libro nero delle parole da evitare in poesia, o al limite può far sorgere qualche domanda sulla nazionalità del kitsch e sul perché esso sia etimologicamente nato in Germania ed ivi longevamente studiato (pare che nella seconda metà dell’800 i turisti americani a Monaco, volendo acquistare opere d’arte a poco prezzo, chiedessero uno “Sketch”, parola entrata nell’orecchio e poi tradotto in tedesco come Kitsch.)

Ma ciò che manca in Killy è ancora l’aspetto autobiografico – continuo quindi alla ricerca di esempi di autoritratti kitsch, in cui chi scrive guardi se stesso con il preciso obiettivo di individuarne le manie, le cadute di stile, gli sfondoni, come se stesse facendo non un autoritratto, ma un’autocaricatura.

E’ così difficile prendersi in giro? Eppure tutti abbiamo indossato maglioni coi paesaggi ai ferri, avuto padri con Fiat 850, usato terra d’Africa fino ad avere la faccia arancione e altre amenità, a seconda dei nostri decenni di riferimento. E poi, se come ormai abbiamo capito tutti, l’ironia è vincente, al punto che l’unica pubblicità ormai accettabile è quella che fa ridere, l’auto-ironia dovrebbe esserne la forma più acuta e creativa.

Sia pur con un’interpretazione letterale del kitsch (quella iniziale in cui accostavo questo aggettivo ad oggetti), ci prova a prendersi in giro (sia pur prendendola alla lontana) Guido Gozzano. L’espediente è puramente autobiografico: il poeta, sfogliando un album, ritrova una foto scattata nel 1850 che ritrae sua nonna Speranza con l’amica Carlotta, entrambe diciassettenni e compagne di studio in collegio.

“Loreto impagliato e il busto d’Alfi eri, di Napoleone

i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto!)

il caminetto un po’ tetro, le scatole senza confetti,

i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro,

 

un qualche raro balocco, gli scrigni fatti di valve,

gli oggetti col mònito salve, ricordo, le noci di cocco,

Venezia ritratta a musaici, gli acquarelli un po’ scialbi,

le stampe, i cofani, gli albi dipinti d’anemoni arcaici,

le tele di Massimo d’Azeglio, le miniature,

 

i dagherottipi: figure sognanti in perplessità,

il gran lampadario vetusto che pende a mezzo il salone

e immilla nel quarzo le buone cose di pessimo gusto,

il cùcu dell’ore che canta, le sedie parate a damasco

chermisi... rinasco, rinasco del mille ottocento cinquanta!

 

I fratellini alla sala quest’oggi non possono accedere

che cauti (hanno tolte le federe ai mobili: è giorno di gala).

Ma quelli v’irrompono in frotta. È giunta è giunta in vacanza

la grande sorella Speranza con la compagna Carlotta.”

 

Ricordando le suppellettili di quel salotto borghese con ironia affettuosa, il capostipite dei crepuscolari ammette con tono camp il conforto del kitsch (le buone cose di pessimo gusto!), per diventare invece successivamente corrosivo nei confronti degli zii, anch’essi scontati come souvenir, nella banalità nella conversazione e nel moralismo ipocrita.

Qui sta un passaggio fondamentale: kitsch non è solo ciò che è fuori di noi, ma siamo noi stessi, con i nostri atteggiamenti piccolo-borghesi. E qui si apre l’interessante rassegna del kitsch non più solo estetico, ma sociale, per cui ci attacchiamo eccessivamente alla nostra immagine, fingiamo di essere migliori di quello che siamo, godiamo nel lasciarci andare al sentimentalismo e al voyeurismo, ci crogioliamo nella nostalgica mitizzazione del passato.

Ci da una chicca in questo senso uno che non ha mai fatto mistero dei propri vizi, al contrario: Charles Bukowski, in una delle sue poesie autobiografiche “Quando eravamo giovani”. Qui, oltre a dichiarare il proprio precoce alcolismo, Charles si fa beffe delle preoccupazioni dei genitori.

 

che cosa diranno i vicini

 

i miei genitori erano sempre dietro a chiederlo,

naturalmente non mi importava un fico di

che cosa diranno i vicini.

mi facevano pena i vicini,

codardi che spiavano da dietro le tendine.

l’intero quartiere si spiava addosso

e negli anni trenta non c’era molto da vedere,

eccetto me che tornavo a casa ubriaco

a tarda notte.

 

“finirai per uccidere tua madre”

diceva mio padre,

“e inoltre, che cosa diranno

i vicini?”

 

Con la lettura di questi brani abbiamo iniziato il laboratorio di Personal Storytelling svolto al WoPA, l’ex spazio industriale della metalmeccanica Manzini di fianco alla stazione di Parma. L’intenzione era ispirare un gruppo di simpatici masochisti a scrivere male di sé. Il clima si è scaldato a tal punto che tutti hanno accettato il gioco sporco, arrivando persino a leggere i propri scritti, equivalente ad “autosputtanarsi” pubblicamente. Non male!

A quel punto, tanto valeva sputtanare anche la città che ha ospitato questa mostra e il nostro lavoro!

Ed ecco che allora ci è venuto in aiuto uno specialista in materia, cioè lo scrittore parmigiano Paolo Nori, che pubblica con Feltrinelli, abita a Bologna e racconta questo episodio nel suo romanzo autobiografico (anche se non lo dichiara, è così) Mi compro una Gilera.

“Una volta ero a Mosca, sulla piazza Rossa, c’era una gita organizzata che stavano epr visitare le chiese del Cremlino, con una guida russa, io ho chiesto se mi potevo unire, Certo mi ha detto al guida, di dov’è lei?

Sono italiano.

Si, ma italiano di dove?

Italiano di Parma.

Ah Parma, che città meravigliosa, La Certosa di Parma, ha detto.

E io quando son tornato, devo dire, avevo più considerazione di quando ero partito, di Parma. Mi faceva star bene il fatto che in Russia, sulla piazza Rossa, c’era della gente che pensava che Parma era una città meravigliosa.

C’è uno studioso di Reggio, se non mi ricordo male, che ricostruisce la storia della redazione della Certosa di Parma, il romanzo di Stendhal, e dice che Stendhal la vicenda storica che racconta era una vicenda romana, e che lui la voleva collocare in un piccolo stato, che andavan bene sia Modena che Lucca che Parma, solo che Modena e Lucca secondo lui poi i duchi di Modena e Lucca magari s’arrabbiavano poi poteva avere dei problemi, Stendhal faceva il diplomatico, invece Parma andava bene perché era uno staterello che contava poco e a Parma c’era la duchessa Maria Luigia che lui, Stendhal, che era devoto a Napoleone, la chiamava la femme de ménage, se non mi ricordo male, e non la poteva sopportare perché aveva ripudiato suo marito dopo che era caduto in disgrazia.

Difatti, andare a leggere il romanzo, Parma sembra il buco del culo del mondo, un posto con dei governanti ignoranti, corrotti, dove non succede mai niente, il regno della noia, dell’ignoranza e dell’ipocrisia e una cosa bellissima è che oggi, passati quasi duecento anni, quel romanzo lì è una delle principali glorie di Parma nel mondo e l’albergo più importante di Parma si chiama Hotel Stendhal, o perlomeno così si è chiamato per molti anni adesso ultimamente ne han fatti dei nuovi che sono più importanti di lui.”

Parma vista dagli occhi di un romanziere ottocentesco, di un filologo reggiano, di una guida turistica russa, di un suo cittadino scrittore dissacrante, di noialtri cittadini spesso ignoranti e vanagloriosi. Un gioco di sguardi che può andare avanti all’infinito, come dentro ad un cristallo lavorato geometricamente.

E dall’esilarante Nori siamo passati all’ultimo atto del laboratorio, con finale a sorpresa. Avevo preparato per ogni partecipante un ritratto kitsch – in base alla loro storia o semplicemente alle suggestioni del loro viso, per chi non conoscevo - a suon di Photoshop (che io sappia non l’hanno ancora inventata un’App per farti un selfie kitsch…chissà forse dopo questo arriverà). Sono rimasti stupiti, sì. Nessuno si è rivoltato e nessuno ha avuto il coraggio di impedirmene la diffusione.

Come nell’Odissea, in cui Ulisse riconosce la grandezza delle proprie gesta solo quando sente l’aedo cieco decantarle alla corte dei Feaci, così ho chiesto ai partecipanti di lasciarsi invitare a scoprire qualcosa di sé (di piccolo, più che di grande) attraverso lo sguardo dell’altro - cioè il mio, in questo caso.

Ancora una volta, l’esercizio ha funzionato. Abbiamo concluso il laboratorio appendendo ognuno il proprio ritratto al chiodo e dando forma così all’esposizione.

Ma, nonostante tutti i miei sforzi, devo ammettere che, accidenti, il miglior esempio di autoritratto kitsch me l’ha servito il mattino dopo Italo Rota al convegno THINKITSCH, mostrandoci l’episodio dei Simpson su Frank Gehry.

L’architetto dei Guggenheim appare nel cartoon come un vecchio superbo e cinico, le cui opere stravaganti sembrano frutto di una demolizione più che di una costruzione. Ebbene, la cosa incredibile, è che a scrivere la sceneggiatura di questo video è stato proprio lui, Frank Gehry in persona! Incredibile, ma vero! O sarà solo buona pubblicità?

tags: Personal Storytelling, laboratorio, kitsch, #theStrangeDays, #parma360
Monday 04.11.16
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Kitsch in my Life!

Tuesday 04.05.16
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Breakin' out with my uncle's car

Breakin' out with my uncle's car: un titolo evocativo per un'installazione che risusciterà il clima underground dell'Emilia anni '80.

Come?

Ecco la presentazione del lavoro scritta da Guido Molinari, professore, curatore e critico d'arte, nonché  membro dei KKD.


"La proposta installativa del gruppo KKD è incentrata sull'esposizione di un'automobile vintage degli anni Ottanta che diviene oggetto estetico attraverso l'utlizzo di videoproiezioni e insonorizzazione. L'automobile, una Lancia Fulvia del 1969, conterrà quattro sagome di cartone con i volti dei musicisti, sul parabrezza, verranno proiettati i videoclip tratti dal disco di recente pubblicazione “Stars Behind The Sun”.

La musica del disco, registrato tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta, verrà diffusa nell'ambiente tramite gli altoparlanti interni dell'automobile. Nei tergicristalli posteriori saranno visibili alcuni volantini in quanto espressione grafica del clima culturale “anni Ottanta”, ed il cui contenuto è legato ad esibizioni e concerti di quel periodo.

L'installazione intende rievocare i viaggi in auto che in quegli anni consentivano un aggiornamento culturale e più in generale una occasione di avventura e divertimento: se oggi ci si connette ad internet per poter avere accesso a qualsiasi contenuto estetico, allora la presenza fisica sul luogo era fondamentale per poter comprendere e valutare ogni elemento di novità per poi rielaborarlo e reinterpretarlo.

Andare in auto ai concerti, a feste che costituivano un punto d'incontro o ad altre occasioni simili, era un aspetto determinante dello spirito di quel periodo. L'installazione intende rievocare quel clima e quegli anni con la musica di quel periodo e con i video che costuivano un elemento di forte novità e sperimentazione.

Di particolare importanza appare il lato più puramente estetico rappresentato dalla presentazione dei volantini e dell'installazione stessa, nel suo complesso, a testimoniare un clima di compartecipazione delle arti, che caratterizzava l'aria del tempo."

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Tuesday 03.22.16
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Storia di una drammaturgia irregolare

A volte ci immaginiamo che i progetti nascano come ci insegnano a scuola. Nel caso di uno spettacolo teatrale, in sequenza la scrittura di un testo, la trasposizione scenica, la ricerca degli interpreti, il lavoro attoriale, le prove, la prima. Vi voglio raccontare una storia diversa, quella dello spettacolo LDM Labirinti del Male.

Era il 2012, Luciano Garofano, da generale inventore dei RIS italiani a scrittore esperto in materie forensi, aveva pubblicato da poco il suo libro Labirinti del Male e, da uomo vulcanico qual’è, aveva in mente di tirarne fuori una trasposizione in un medium che potesse portare le storie delle protagoniste del libro più vicino al pubblico. Fu così che fece incontrare lo scrittore Francesco Zarzana con Alessandro Molinari, regista e videomaker nonché mio socio di vita e lavoro. Si cominciò a lavorare all’idea di una messa in scena teatrale. Venne scelta come interpete Giorgia Ferrero, una giovane attrice che avrebbe partecipato poi a La Grande Bellezza di Sorrentino.

Io guardavo tutto da lontano: il mio secondogenito aveva pochi mesi ed io era assorbita completamente da lui e dal compito dell’allattamento, cui mi dedicavo come una missione. Avrei voluto partecipare in modo più diretto e concreto a quel progetto che toccava un tema urgentissimo della nostra società. Avrei voluto fare qualcosa di più di un generico sostegno morale, direzionando la mia creatività per un fine importante per la collettività.

Al di là del mio punto di vista, l’opera crebbe e sbocciò. Zarzana scrisse il testo e curò la regia e Molinari scrisse le musiche e girò con Giorgia Ferrero vari video clip che intervallavano l’azione scenica, che animava la prima parte dello spettacolo, seguita poi dalla conferenza multiemdiale tenuta da Garofano. Il lavoro debuttò il 5 maggio 2013 al Teatro Asioli di Correggio.

La sera stessa del debutto, però, successe un episodio sgradevole che creò una rottura nel gruppo di lavoro. Si cercò di rimediare per alcuni mesi, senza riuscire a trovare una soluzione. Naturalmente, sarebbe stato un peccato buttare via tutto. C’erano tanti pezzi che, nonstante tutto, restavano a galla, come dopo un naufragio: un’attrice senza più parte, vari videoclip con lei come protagonista, musiche coinvolgenti, gli interventi di Luciano Garofano su stalking, cyberbullismo, nuove tecnologie e sviluppi legislativi. E, soprattutto, c’era l’interesse della gente per un modo diverso di accostare questi temi - un modo più delicato e costruttivo rispetto al sensazionalismo televisivo.

Nel frattempo erano passati i mesi ed io avevo ripreso a lavorare. In quel periodo la cantautrice italo-americana Laura Trent chiedeva ad Alessandro di girare il videoclip del suo brano Emily – guarda caso la storia di una donna in pericolo, disperata, che grida aiuto perché non riesce a salvarsi da sola. La connessione fu presto fatta: l’interprete di quel video diventò Giorgia, protagonista di LDM e fece una comparsa pure Luciano Garofano.

Questa nuova riattivazione di energie attorno al progetto smarrito mi fece fare un passo: proposi di prendere in mano i vecchi pezzi naufragati con i nuovi. Volevo immaginare una storia che potesse tenerli tutti assieme, come una specie di isola deserta su cui approdare e convivere.

Studiai il materiale e la mia storia nacque così, all’incontrario, come un collante che andasse a riempire i vuoti, a creare dei passaggi tra un’immagine e l’altra, tra un caso di cronaca e l’altro, accompagnando lo spettatore dall’inizio alla fine con la storia di un uomo e di una donna come tanti, incapaci di far crescere amorevolemnte il loro rapporto.

Fu proprio quella la sfida: non limitarmi a scrivere un pezzo teatrale avulso dai tutti i precedenti, un brano a se stante che fungesse da preambolo o epilogo alla parte didattica. No, volevo sperimentare una drammaturgia nuova, in cui i vari media - presenza scenica attoriale, video, presenza scenica didattica, testo, musiche e naturalmente il video clip “Emily” – potessero amalgamarsi in un unicum che accompagnasse lo spettatore su temi via via diversi, ma sempre con un pathos vivo e acceso, attraverso un coinvolgimento emotivo dato non dalla spettacolarizzazione dell’evento sanguinoso, ma da tutto ciò che lo precede e che subdolamente porta la relazione a un inasprimento vicino alla disperazione.

La mia storia ha voluto soprattutto riflettere sul linguaggio, su quel linguaggio quotidiano e familiare che crediamo di parlare, ma che in realtà “ci parla”, “ci plasma”, impastandoci di mancanza di rispetto e ingiusto senso di possesso. Ho voluto anche portare in scena lui: troppo spesso viene mostrata la vittima, mentre l’aggressore rimane nel buio, nascosto, coperto dall’alibi della pazzia o della mostruosità. E’ importante invece cercare di capire chi è l’uomo che uccide e tracciarne un identikit, per imparare a riconoscerlo e a difendersi.

Così, in modo irregolare e imprevedibile, proprio com’è la storia delle storie, cioè la Vita, è nata la versione 2 di LDM che ha girato varie città d’Italia e che in questo prossimo 8 marzo approderà a Merate, nei pressi di Milano.

Uno spettacolo che ora già si prepara già alla versione 3 – quella di un Laboratorio di Educazione alla Relazione per le scuole, in cui saranno gli studenti a raccontare la violenza, anzi per esteso le violenze – a partire dal loro punto di vista e dalla loro esperienza. I ragazzi prenderanno in mano LDM per farne uno spettacolo dei ragazzi per i ragazzi. Ma questa è un’altra storia e ve ne parlerò in un post successivo!

tags: labirintidelmale, drammaturgia, storytelling, luciano garofano, giorgia ferrero, laura trent, alessandro molinari, giulietta kelly, elisa barbieri, rotary club, monica rivolta
Saturday 03.05.16
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8 marzo a Merate (MI) con l'opera di teatro contro la violenza LDM Labirinti del Male

Il Rotary Club Colli Briantei, il Rotary Club Merate Brianza ed il Rotaract contro il femminicidio, lo stalking e la violenza sulle donne.
In occasione della festa della donna dell’8 marzo, una serata a teatro, ad ingresso gratuito, nell’Auditorium di Merate, con l'opera di teatro didattico contro la violenza sulle donne ‘I LABIRINTI DEL MALE’, scritta da Elisa Barbieri (Giulietta Kelly) con il gen. Luciano Garofano, già comandante dei RIS dei Carabinieri, che sarà anche protagonista - interpretando se stesso - nella messa in scena di Alessandro Molinari.

"Violenza sulle donne e femminicidio – spiega la dott.ssa Monica Rivolta, presidente del RC Colli Briantei - non sono certo fenomeni nuovi per il genere umano. Ma è vero che sembrano amplificati per numero e gravità in funzione di un'informazione che viaggia veloce e, troppo spesso, sovraespone il fatto di cronaca senza approfondirlo nelle sue dinamiche psicologiche.Il senso di un'opera teatrale come "I Labirinti del Male" è proprio quello di agire in controtendenza, insegnando alle donne come riconoscere un possibile stalker: l'aggressore nascosto sotto le mentite spoglie del corteggiatore, dell'uomo che si dichiara pronto ad uccidersi, e quindi ad uccidere, per amore. Sì, amore malato. Uno spettacolo didattico, rivolto alle donne, ma non solo, ai genitori, agli educatori, a tutti. Perché nessuno possa più dire nelle interviste televisive, parlando del vicino di casa, responsabile di un delitto: "Sembrava una persona normale, non avrei mai sospettato potesse arrivare a tanto...". Esiste l'attenzione per l'altro, la partecipazione, lo spirito d'osservazione che, se correttamente sviluppato, aiuta a cogliere i segnali premonitori di una tragedia".

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www.labirintidelmale.it

tags: violenza, stopviolence, labirintidelmale, LDM, luciano garofano, alessandro molinari, elisa barbieri, giulietta kelly, laura trent, giorgia ferrero, rotary club, monica rivolta, matteo notaro
Saturday 03.05.16
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5 buoni motivi per scrivere per se’ (non per pubblicare)

Ho terminato la mia autobiografia, stampata, rilegata, spedita a una lettrice incognita, infilate tra una Dickinson e un Balzac le copie destinate ai figli una volta raggiunta la maggiore età.

Mi sento sollevata ma soprattutto svuotata, come dopo ogni grande consegna. Cerco di riempire il vuoto parlandone con amici, i quali mi chiedono tutti se la pubblicherò. Noto che quando rispondo di no, l’interesse per il lavoro inesorabilmente scema.

La cosa mi delude un po’, così mi consolo traendone “food for thought”. Conosciamo bene i vantaggi della pubblicazione: qualche guadagno, gratificazioni, nuovi contatti e notorietà in caso di successo editoriale.

Certamente risulta più difficile capire perché mai ci si dovrebbe limitare a scrivere per se’ e per pochi eletti. Ma vi assicuro che non si tratta di un’idea insensata e qui di seguito proverò a convincervi con 5 motivazioni:

  • La libertà di seguire i propri gusti (e non quelli del mercato)

scrivere per sé significa non doversi preoccupare di quali sono i generi e i temi che vanno per la maggiore - possiamo scrivere ciò che più ci interessa e ci attrae, cercando di soddisfare un solo lettore (cha, tra l’altro, conosciamo benissimo): noi stessi. Niente sciatteria, quindi, anzi, al contrario, faremo di tutto perché lo stile della nostra opera ci assomigli più possibile

  • Portersi rivelare nella scrittura

scrivere per se’ consente di potersi rivelare nella scrittura nella propria intima sincerità, senza dover usare la scrittura per esprimere e allo stesso tempo celare, per nascondere aspetti di se’ che non si vorrebbero fossero riconosciuti, da nessuno o da qualcuno

  • Fare un dono e creare connessioni sintoniche

scrivere per se’ non vuol dire fare un’opera assolutamente privata e non condivisibile. Alcontrario, si può fare dono del proprio scritto ad alcune persone selezionate con cui ci si sente in sintonia, per mettere in moto uno scambio di idee e sentimenti e lasciare che il proprio seme germini e si diffonda spontaneamente, là dove crediamo che possa essere meglio recepito. E’ probabile che si creeranno nuove interessanti connessioni. In ogni caso, lo sguardo dell’altro sarà un momento di importante verifica e stimolo.

  • Dare alla propria storia l’importanza che merita

Spesso i libri interessano gli editori quando rappresentano storie con effetti speciali alla Murakami, condizioni estreme alla Susak o coté piccanti alla E. L. James

La maggior parte delle storie di vita sono molto più sottili e mano appariscenti, ma non per questo meno rilevanti. Scrivere il libro della propria vita per se’ consente di sottrarre la propria storia a mistificazioni compiute in nome dei numeri, permette di scrivere con il solo scopo di celebrare la Vita come maestra, di individuare e riconoscere i punti salienti che hanno formato la persona che si è diventati.

  • Raggiungere obiettivi personali attraverso la scrittura

Lasciare una traccia di se’, colmare un vuoto, dare forma estetica alla propria Vita, riconciliarsi col passato, riaprirsi alla progettualità, scoprire le proprie radici, cercare una cura: sono diverse le ragioni che muovono uno scrittore prettamente autobiografo, ma tutte sono legate alla sfera privata, non a quella pubblica – da qui la non-necessità di rendere pubblica l’opera (così come suggerisce il verbo “pubblicare”).

Ciò detto, è probabile che il lavoro di stesura della propria storia sia un ottimo canovaccio da rielaborare creativamente per partire alla conquista del grande pubblico. Questa volta con tutta la progettualità che un potenziale best seller richiede.

 

 

tags: Personal Storytelling, Murakami, Susak, ELJames, autobiografia, autobiography, libera università autobiografia anghiari
categories: Personal Storytelling
Sunday 02.07.16
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Davines WWHT 2016 L.A. Report

Davines proposed the best of international coiffure with an extraordinary hairshow at the historic Orpheum Theatre located in downtown L.A., where over 2,000 attendants showed up to the two-day (January 18-19, 2016) annual event – World Wide Hair Tour. The fusion of videoart, music, dance and light breathed life into the creations of Davines’ most renowned hairstylists in the world. 

00:am has been working for months on the Show Artistic Direction: video&graphic backgrounds, video-stories, soundtracks, storytelling, choice of the theme, creative maps and new formats, like the World Style Contest’s competition one.

The number one star of the show was of course the hair genius Angelo Seminara, Davines Artistic Director since 2011, who performed in two amazing shows –Monday & Tuesday– that simply mesmerized his audience. Angelo took this opportunity in the spotlight to present Davines’ new line Your Hair Assistant, conceived and designed by himself.

Among the talent that was gracing Orpheum Theatre was legendary cinema hairdresser Aldo Signoretti, amazing Canadian hairstylist Anna Pacitto, Danish dynamic duo Brian & Kirsten, the sublime team of ION Studio NYC, the extraordinary Anthony Polsinelli, UK London's education gurus Allilon Education Team led by Johnny Othona and Pedro Inchenko, and the Davines North America Artistic Team made by Francesco Ferri, James Abu Ulba, Lina Shamoun and Naomi Knights. 

Davide Bollati, the Owner/Chairman of Davines, shared with the audience I Sustain Beauty, a callout for everybody to participate in making the world a more beautiful place and the Davines Village, the architecture project for the company’s new headquarters in Parma designed by Matteo Thun.

Davines CEO, Paolo Braguzzi, explained to the audience what B.Corps are - companies who use business to do something good for the world - and proclaimed the company’s intention to join the global B.Corps Movement in the next few months.

tags: Davines, World Wide Hair Tour, Angelo Seminara, Aldo Signoretti, I Sustain Beauty, B Corporation, Allilon Education, Hairshow, Events
Sunday 01.24.16
Posted by 00:am
 
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